INSIDE
a cura di Alberto Mattia Martini

Qual è la caratteristica imprescindibile per cui un’espressione artistica possa essere definita tale e quindi inserita e riconosciuta nel presente e proiettata nel futuro?
I requisiti potrebbero essere più di uno, ma a mio avviso l’elemento indispensabile, la base da cui partire, è che la ricerca culturale proponga una riflessione, si imponga nella società, in quanto capace di interpretarne lo spirito del tempo, quello che la filosofia tedesca e hegeliana definiscono con il termine Zeitgeist.
Renato Meneghetti non solo ha intuito questo aspetto, ma come afferma Pierre Restany: “Meneghetti è, prima di ogni altra cosa, un uomo del suo tempo. Ha saputo presentire l’imminenza del mutamento della nostra coscienza percettiva e dell’emergere di una dimensione globale della comunicazione”.
È la sintonia con il proprio tempo, con il mondo nel quale siamo gettati ogni giorno, è quel “gusto” per il reale, per il materiale concepito come materia creatrice in simbiosi con la metafisica, con la tecnologia e il mondo naturale; Meneghetti è tutto questo ed altro ancora. Trovare una definizione, un aggettivo, inquadrarlo all’interno di semplicistici schemi sociali universalmente riconosciuti certamente non è possibile e non renderemo onore alla verità. Visti i suoi trascorsi nel mondo della pubblicità potremmo inserirlo in questa voce, ma sono convinto che, il Meneghetti di oggi non si sentirebbe assolutamente a suo agio avvolto da tali abiti e ancora meno rappresentato da tale definizione.
I mezzi con i quali l’artista si esprime sono molteplici: la pittura, il video, il cinema, la musica, la scultura, tutti strumenti ineludibili e soprattutto l’uno la conseguenza dell’altro, finalizzati a porre domande, che possano abbattere le barriere mentali, sprigionando continue riflessioni.
Probabilmente Meneghetti come ogni artista, che possa essere definito tale, avverte l’urgenza immanente di aprire, scardinare le porte dell’ignoto e immettersi, lasciarsi condurre dalla pura creatività, a costo di dover continuamente reinventare e ricostruire la parte più intima e recondita di se stesso.
Sono proprio queste fantasie, le volizioni e le emozioni, congiunte ai così detti fatti della vita, alle prove a cui essa ci pone innanzi, a volte terribilmente cruente, che hanno fatto avvicinare Meneghetti alla radiografia. Un mezzo indubbiamente inseribile all’interno del mondo della tecnologia e poi della scienza ed ancora della medicina, ma che per definizione è l’unione, l’interazione tra materia e radiazione. Un perfetto incontro tra tecnica e umano, tra complessa e costante ricerca messa in atto dall’uomo, che ha come finalità lo stesso umano. Se l’analisi radiografica è tesa a svelarne la verità materico-corporea, grazie a Meneghetti, assume un alone di misticismo, divenendo strumento per indagare la percezione mentale che si genera con l’espressione fisica, quando analizzata nel suo intimo tende a sfociare nell’emozione.
Attratto come abbiamo detto dal mondo tecnologico, ma al contempo non potendo fare a meno delle umane vicissitudini, l’artista vicentino ha trovato nei raggi x una sorta di prolungamento dei suoi stessi occhi, uno sguardo bionico, che gli permette di scommettere, giocare e vincere su una ricerca che lancia un segno profondo, coinvolgendo nella partita tutti i nostri sensi.
Tra i primi a fare uso delle radiografie come mezzo artistico, Meneghetti è certamente stato “l’originale” nell’essere intervenuto direttamente sulle radiografie, modificandole, interagendo, riportandole su tela e poi operando con colori, speciali vernici ed alcool, oppure agendo digitalmente e quindi riportando l’immagine su carta fotografica. Un figura, oserei dire un icona, che nella serie L’anima del quotidiano assurge a simbolo ancestrale della vita, anima dell’identità non svelata appartenente ad ognuno di noi, che ponendosi sempre più nell’intimità, riesce a raggiungere ogni singola coscienza. In principio era l’uomo ad occupare la scena delle radiografie, lo stesso artista, che ossessionato dalla morte, cercava di contrastare la fuga del tempo, imprimendo indelebilmente la propria immagine. Successivamente i soggetti diventano persone comuni o oggetti del quotidiano, un rapporto tra individuo e oggetto che non si limita alla mera distinzione tra la tipologia di materia di cui entrambi sono costituiti, ma indaga la presenza dell’io che ci permette di porci in relazione con noi stessi. Sono opere, immagini sperimentali, connesse ad una meticolosa indagine di pensiero, esperienze che scavano tra i reconditi ambiti dell’origine e quelli inaccessibili della morte. Come sostiene lo stesso Meneghetti: “Attraverso la rappresentazione della morte sono riuscito a comunicare la vita per cercare l’essenza della verità”. È proprio questa bramata essenza della verità, che costituisce l’oggetto del desiderio da parte dell’uomo fin dalla notte dei tempi; l’eterno errare all’interno di un labirinto infinito, in cui i muri, dai quali siamo contornati, risultano essere gli unici compagni di viaggio. Non si sa cosa ci aspetterà una volta trovato il centro, forse la proiezione di noi stessi o forse un altro muro, una parete che Meneghetti definisce Sensazione minima. La sensazione trasmessa non appare affatto ridimensionata e nemmeno priva di emozioni, anzi è proprio grazie alla radiografia che abbandoniamo uno sguardo asettico, spesso superficiale per ottenerne uno più introspettivo che, ci permette di carpire quello spazio ultrasensibile ed intimo, ai più inaccessibile. Una cascata di immagini illuminate, dalla quale pare provenire un grido che accomuna l’umanità, gli elementi, i simboli e le iconografie. Una luce irradia questo incessante desiderio di comprensione e di eternità, tenendo ben presente quello che ci rammenta Platone: “Più conosco e più mi trovo davanti al mistero”. L’arte e di conseguenza la vita non devono perdere il mistero che le contraddistingue, non devono divenire una fotocopia del reale, ma conservare la libertà dell’immaginazione e del dubbio.
Potrebbe risultare un’ovvietà asserire che viviamo nella società dell’immagine, ma è certamente un dato di fatto inopinabile. Se l’immagine spesso integra la parola, ne approfondisce i contenuti e i messaggi, mai come oggi essa ha acquisito un enorme potere mediatico e di conseguenza una preoccupante capacità di manipolarne il pensiero.
Nel film di John Carpenter, Essi vivono(1988), il protagonista trova uno strano paio di occhiali da sole, grazie ai quali riesce a vedere finalmente in modo veritiero la realtà nella quale vive. Il mondo che lo circonda non è a colori, ma in bianco e nero, i mezzi di comunicazione dalla televisione, ai giornali, ai cartelloni pubblicitari, riportano e “propongono” messaggi subliminali, che inneggiano all’obbedienza, a non pensare, a credere nel denaro come a un dio, a non ragionare con la propria testa, ma ad uniformarsi in unico pensiero. È un’umanità, come ci racconta Meneghetti nella serie Clandestine, che non sa più vedere, che a causa del martellamento mediatico quotidiano è concentrata sulla propria persona, assoggettata ad un’espressione dei sentimenti tramutatisi anch’essi da spirituali a beceri merci di scambio, finalizzati al raggiungimento di personali interessi e piaceri. Lasciandoci ingannare dal potere delle immagini, dai finti messaggi standardizzanti e massificanti, accade che il cervello si atrofizzi come accade nell’opera Optional, dove è più il tempo in cui esso risulti sgonfio e privo di idee, che gonfio e quindi pensante; lo sguardo della mente invece non si deve fermare al livello estetico dei pregiudizi, ma pretendere una riflessione totalizzante, che possa sfociare in obbiettive emozioni, reazioni e considerazioni.
Così come nel film di Carpenter, risulta palese il rischio di essere soggiogati dal male, dall’imposizione subdola, che tende a sottometterci ad ideali meramente consumistici e capitalistici, allo stesso modo nelle opere di Meneghetti, emerge un determinato e potente invito a riflettere sull’indifferenza e sulla differenza. Oggi viviamo in un momento storico dove è sempre più forte e radicato il senso di appartenenza, dovuto principalmente ai nazionalismi, orientati ad un’ambizione di universalismo, che spesso finisce per considerare tutte le minoranze un pericolo, in quanto potenziali “attentatrici” alla loro idea di libertà di pensiero. Subentra così il tentativo di arginare e ridurre il “pericolo del diverso” a tutti i costi, anche limitandone la nostra libertà personale. Questo è il messaggio forte e chiaro che proviene da An invasion of privacy Invaded, un’opera realizzata nel 1999, ma di estrema attualità, che pone il quesito su quale possa essere il prezzo da pagare per la propria incolumità e quale possa essere il limite non travalicabile di intromissione nel privato; siamo disposti a rendere pubblici i nostri interessi, desideri, difetti e debolezze? A mio avviso queste modalità sono solo dei palliativi, apparentemente utili all’istante, ma non certamente nella lunga distanza. Il problema reale è che il nostro sistema è in crisi, ha fatto il suo tempo e non basta puntare sulla paura e sull’aggressività, creandoci un nemico che ne impersonifichi tutte le colpe. La soluzione varrebbe tutto l’oro del mondo o forse non esiste, certamente un importante passo in avanti lo si otterrebbe con un vero confronto che, non travalichi la libertà del singolo e non ne neghi la peculiarità, riconoscendo ad ognuno la lecita antropologia culturale.
Quella di Renato Meneghetti possiamo quindi ribadire essere un’adesione al reale, passando attraverso il surreale, un’indagine sull’essenza ottenuta con un mezzo tecnico, che si serve dell’introspezione per conoscere la natura, la forma e il tempo del singolo. Per comprendere sono necessari essenzialmente due aspetti: il primo è quello che in greco prende il nome di Oikeiosis, ovvero la conoscenza, appropriarsi di sé stessi, della realtà e della vera natura, che è un tutt’uno con la natura universale. Il secondo elemento imprescindibile è conoscere il passato, la provenienza, il radicamento nelle vicende storiche, fino al punto di potersi collocare al suo interno e divenire parte delle sue radici. La conoscenza della storia, in modo completo è concessa però solo a chi come Meneghetti riesce ad identificarsi con essa, non senza però rinunciare ad interpretarne gli eventi o i protagonisti. Una modalità riflessiva che avviene nella serie dedicata ai Grandi Maestri, dove Meneghetti “si appropria” di alcune fra le più note opere della storia dell’arte, per riproporle con una struttura visiva che non rappresenta semplicemente una copia del reale o un’interpretazione della stessa, ma un’immagine che appare come emblema culturale dell’analisi interiore non limitata al soggetto ritratto, ma che si addentra nella psiche del maestro stesso. Lo spazio si pervade di colore sterile, monocromo, il freddo si impossessa della scena, si espande in ogni dove, entra nelle ossa portandole in superficie fino a renderle visibili ad occhio nudo. Corpi espressivi, dove un solo particolare radiografato diviene il tutto. L’anima straripa dagli argini che la contengono per espandere l’urgenza poetica nelle membra, tra i solchi del viso, nelle contorsioni, negli istanti eternamente immobili, tra gli spasmi emotivi, fino ad arrivare a placarsi negli sguardi che hanno rapito il tempo. Inizialmente una strana armonia congiunge tutti i soggetti scelti da Meneghetti; una delicatezza rituale, aurorale, che lentamente perde di definizione, di forma, di pigmento e di distacco tra sfondo e primo piano, fino inevitabilmente a trasgredire in una sorta di crescente malattia dell’esistere. Dai Grandi Maestri si irradia una luce perpetua, dovuta all’armonia tra tecnica e pensiero, per poi produrre un forza espressiva, che confonde e non permette di scindere il reale dalla sua percezione. Le forme rappresentate da Meneghetti vivono nello spazio e nella materia e quindi nello spirito, alla ricerca di quella verità a cui si riferisce Aristotele, quando afferma che la poesia è più vera della storia, perché ha in sé la capacità di concentrare e rappresentare la varietà nella tipicità.

Alberto Mattia Martini