Il potere della parola sull’opera di Renato Meneghetti
a cura di Ennio Pouchard

Di una scelta di “dipinti X-RAY” dagli anni Ottanta a oggi e di opere tridimensionali di vari periodi e di diversi tipi si compone l’antologica OptionaL. Renato Meneghetti - Opere 1997-2013 con cui il poliedrico artista bassanese (per elezione) si presenta a Castelfranco Veneto, ospite della galleria Castellano Arte Contemporanea.

La domanda ovvia che penso mi verrà rivolta, in qualità di curatore della rassegna e del catalogo, è cosa significhi quell’anno di partenza indicato nel titolo: ebbene, nelle nostre cronache il 1997 è all’insegna della mostra Meneghetti radiografie 1982-1997, curata da Marco Goldin per Palazzo Sarcinelli a Conegliano. L’artista aveva concluso la sua serie di imprese da capogiro quale pubblicitario tra i maggiori in Italia, archi tetto — in particolare restauratore di antiche ville venete, da lui via via abitate — scultore e designer, compositore di musi che tra l’elettronico e il concreto, nonché film-maker, attore, ideatore di installazioni e performance (con una pièce giu dicata la migliore dell’anno premiata con la “Fenice d’oro”, nel 1985), presente — caso unico — nelle Biennali veneziane di Musica (1982), Cinema (1983), Architettura (2010) e Arte (2003, 2011), e ritornava all’amata pittura, avendola reinven tata verso la fine degli anni Settanta con i primi lavori su tele stampate da negativi di radiografie e variamente elaborate. Era quella la pittura che a Padova, nel 2000, in occasione della panoramica al Palazzo della Ragione e con la benedizione di Gillo Dorfles diventò per la storia “l’unico fatto nuovo intervenuto nell’arte italiana in questi ultimi vent’anni”. Il 1997, quindi, marca l’inizio della presenza pubblica di quel tipo di opere e una svolta radicale per l’arte di Meneghetti; e da esse inizio la mia escursione, dando per scontata la conoscenza dei precedenti (e rimandando il lettore curioso alla biografia in appendice o alle esistenti più ampie trattazioni).

Prima di me ne hanno scritto tanti altri storici e critici autore voli in campo internazionale, cercando e analizzando i valori formali, gli eventuali rimandi e i possibili crediti, i significati, i rapporti tecnici, filosofici e sociologici, le iterazioni; chi de finendo Renato un genio, o IL genio dell’epoca, chi un visio nario o un profeta, ma anche un prodigioso saltimbanco, o un fantasioso protagonista di viaggi iniziatici. Io mi sono proposto di arrivare all’osso (per quanto possa apparire strano il cercar di arrivare all’osso di un osso radiografato) delle possibili ana lisi, ponendomi un paio di domande. La prima, polemica e caustica quanto le osservazioni che penso di sentir fare da spettatori scettici verso le innovazioni tecnologiche in un’arte che vorrebbero il più possibile affida ta alla salvaguardia della tradizione, chiede se non si tratti essenzialmente di una trovata d’effetto. L’altra è questa: cosa significano quei titoli, considerato che nelle immagini proposte le opere non intendono rappresenta re alcunché di reale ma frequentemente portano nomi che lo simulano — come i “ritratti” di Charles, Giovanna, John John (Kennedy?), Winston (Churchill?) e il personaggio mitologico, Proserpina, nelle due versioni agli Inferi e nella luce — ri manendo comunque privi di qualsiasi riferimento figurativo a persone esistenti o esistite nella realtà e nel mito? È chiaro che in quei dipinti, perché di dipinti si tratta, l’arti sta infonde significati, valori e qualità che appartengono a un universo spirituale; e il modo in cui lo fa è manifesto già al momento della loro origine, per una fase di lavoro nuova le gata a una situazione per lui dolorosa. Ora, da tempo, sono il medium di un incontro quasi mistico con i misteri della natura. Dai mutamenti nei titoli ci si rende conto come il messaggio a essi affidato si stacchi man mano dalla loro realtà materiale e li faccia diventare parti essenziali della poetica dell’autore, legate concettualmente al grande potere della parola che per lui è pietra, acqua, terra, fiamma, oceano, abisso. Non per nulla l’immagine-logo e lo stesso titolo della mostra apparten gono a un cervello gonfiabile, trasparente, praticabile al suo interno e soprattutto parlante: soggetto politico, quindi, nei modi e con la passione di chi predica il sacrificio per una sal vezza laica dell’umanità, ma che con il nome che ha ricevuto, OptionaL, porta il fardello insostenibile della condanna a es sere accettato o rifiutato senz’alcun coinvolgimento emotivo. Come i missionari e i martiri. O anche gli avventurieri. Per quanto riguarda il quid di macabro nei dipinti, percepito da quanti ne parlano come di “immagini da ossario”, io lo nego per principio, perché i procedimenti radiografici sono destinati, per loro natura, ai viventi; quindi non posso condi videre l’idea che nelle radiografie di Meneghetti ci sia il segno di un “rapporto con la morte”, di una “ossessione dell’idea della morte che attraversa tutta l’opera”. Non “voci prove nienti da un’Ade moderna, fragile e ardente”, quindi, bensì voci di fiducia, di speranza di vita. Questo, sì, si combina con la struttura mentale di Renato Meneghetti, che è sempre stata ed è di sfida, cioè fattivamente positiva; anch’io l’ho udito parlare di morte (Achille Bonito Oliva sosteneva, in un testo del 2006, che per lui è un’idea ossessiva), ma con la serenità di chi la sente parte integrante della propria esistenza. D’al tronde, il fatto stesso di metamorfizzare la lastra, una volta conclusa la funzione per la quale è esistita, le fa assumere il valore simbolico di una vita che continua: diversa, aperta, nuova e — come succede talvolta, a causa delle irrequietezze dell’autore — pronta a rinnovarsi mutando. Aggiungo una nota secondo me atta a evitare scivolamenti su un terreno insidioso: ricordo che in alcuni interventi a propo sito dell’utilizzo meneghettiano delle lastre radiografiche, si tendeva a impostare la disquisizione nel quadro generale del rapporto tra arte e scienza. Ma dov’è il coté scientifico di questo lavoro? La radiografia è, sì, un prodotto appartenente al mondo delle scienze, ma qui è spostata in un universo au tre, di fantasia; dov’è nobilitata, attraverso il processo pitto rico che ne corrompe — annullandola — la natura intrinseca. I dipinti, che hanno in comune la base dell’utilizzo di lastre radiografiche, non sono realizzati tutti nello stesso modo, e ciò ne frammenta l’unicità concettuale, sparpagliandoli in di versi blocchi categoriali che dipendono dalle tecniche usate. Alla modalità più immediata e diretta — per l’intervento con pennelli o tamponi, usando pigmenti sciolti nell’alcol, su tela fotosensibile con le immagini radiografiche previamente tra sferite — Meneghetti fa ricorso per le opere citate le quattro Lune, ricavate da radiografie sul suo corpo (credo se ne sia sottoposto innumerevoli volte, cambiando laboratorio — con l’incoscienza che gli è propria — quando gliele rifiutavano). Concettualmente simili, ma formanti un caso a parte, sono quelle dei cicli An invasion of a privacy invaded, basati su controlli ai raggi X negli aeroporti, dai quali nascono le fo tografie dipinte e le Lambda, e Clandestine, dove non è il materiale di base e l’elaborazione che sono cambiati, ma le ragioni del loro esistere, in quanto ottenute da immagini allo scanner di camion e T.I.R. in transito alla frontiera di mare a Calais, Dover e Kabul per mezzo delle quali vengono scoperti gli ignari clandestini nascosti tra le casse del carico inerte. Radiografie della disperazione, dunque, dallo straziante im patto sociologico; e ho trovato molto preoccupante il vederle a volte guardare con indifferenza. Meneghetti non le ha pro dotte a freddo. Su tutt’altri piani, invece, stanno le tele tratte dal “Ciclo dei Grandi Maestri” (Schiele, Magritte, Dalí, Picasso, cui si è ag giunto ora, realizzato per la mostra quale omaggio speciale alla città di Castelfranco, il Giorgione dell’Autoritratto in ve ste di David del Museo Herzog Anton Ulrich di Braunschweig); qui entra in campo un procedimento che coniuga dipinti sto rici, riprodotti nella scala dei grigi — sempre fedeli all’origi nale, o a particolari dello stesso — e radiografie fatte artata mente corrispondere (con un portentoso lavorio in Visual Art e attenta operazione pittorica finale) alle parti (ossia agli arti, alle porzioni del corpo dipinto) che sono destinate a coprire. Non vorrei che queste descrizioni li facessero interpretare, da parte di chi mi legge, alla stregua di virtuosismi di grafica, perché in essi si fondono una concettualità spinta, un’inventi va prodigiosa, un bel dominio del multimediale, coronati solo infine dalla fase pittorica: sono dunque il prodotto di una fu cina artistica completa e propositiva. A essi si possono associare, in quanto simili per costruzione, Il Cristo morto del Mantegna e le Sindoni del Cristo Morto del Mantegna. A questo capolavoro unico dell’ottavo decen nio del Quattrocento, riprodotto in bianco-nero nelle dimen sioni originali (74,5 x 84,5 cm), Meneghetti ha sovrapposto l’ipotetica radiografia del corpo reale, realizzata con un mon taggio di lastre parziali fatto osso per osso, virato in diafani toni azzurrini e perfettamente coincidente, nella prospettiva spinta del modello, con positura e dimensioni identiche. Le radiografie sono nuovamente del corpo dell’artista: per lui, un atto di immedesimazione nel corpo morto del Figlio di Dio, che considero coinvolgente in piena umiltà, perché non ho mai sentito Renato scherzare su questi argomenti. La fase pit torica è stata eseguita a sottrazione, ossia partendo da uno strato bianco di base e un “cian” sovrapposto, asportato poi a pennello, stracci, solventi e tamponi in modo da ottenere le sfumature necessarie per creare i volumi. L’immagine ri sultante è di una spiritualità esaltante, che nell’installazione alle “Tese” dell’Arsenale Novissimo a Venezia nel 2011 — l’ho pubblicato e lo ripeto — era il fulcro di quello che credo fosse il capolavoro non soltanto suo, ma di tutta quella Biennale (l’insieme fu poi rimontato a Roma nel 2012, nella Basilica di Santa Maria in Montesanto a Piazza del Popolo, nota ai romani come Chiesa degli Artisti, nell’ambito del progetto del Vatica no Una porta verso l’infinito. L’uomo e l’Assoluto nell’arte, curato da Francesco Buranelli, con il titolo Guardare dentro per vedere oltre). Un fatto tecnicamente ancora isolato è il metodo di lavoro, molto elaborato, del recentissimo Kiss to Camilla (realizzato per la mostra-evento collettiva I have come to you again Blessed John Paul II, curata anche questa da Francesco Bura nelli, per gli Stati Uniti, e dedicata a Papa Wojtyla, dove Ca milla è la nipotina di Renato vista in un’ecografia prenatale: meno direttamene leggibile dei raggi X e più misteriosa. E chi la bacia come potrebbe baciare un Gesù Bambino è Giovanni Paolo II. Tra le opere tridimensionali hanno particolare risalto le scul ture in gres Paralleli vertebrali, i cui tronchi cavi, alti fino a quattro metri, strutturalmente riproducono certi fusti di palme dei Caraibi chiamate dai locali Anime della foresta. Stranamente simili a spine dorsali umane, per l’artista — che ne presenta anche le versioni dipinte, come fondale delle sculture — sono simboli spontanei della grande unità con cui si sviluppa la natura, appartenendo a quella costante mene ghettiana che è il rapporto animistico con il creato. I light boxes Sensazione minima sono stampi su vetro di sue opere pittoriche; ridipinti a loro volta, cattivanti negli effetti luminosi e timbrici, hanno potenzialità seriali illimitate, di cui i pochi esempi esposti in mostra danno comunque un’idea. A essi si può aggiungere la riproduzione in scala del grande cubo della mostra di Bassano del Grappa del 2010 (composto di ri produzioni su plexiglas dei dipinti originali — m. 5,60 x 4,60 — sulle quali l’autore è intervenuto pittoricamente con colori da vetro, fatte aderire sulle pareti del suggestivo grande pozzo di luce vitreo del Museo Civico), che si può far rientrare tra i dipinti, perché da quelli nasce. Passo ora al ritmo che mi piace definire musicalmente “fu gato con spirito” di un allestimento ciclicamente distrutto e riprodotto, Indifference (termine che nel caso specifico è provocatorio), formato da decine di teste in ceramica bianca plasmate da calco (anche sull’autore, naturalmente) e sparse in disordine in zone di transito pedonale. Di solito i passanti, attenti dapprima a evitarle, dopo le prime rotture involonta rie prendono gusto a calpestarle; e il vederli apre le strade di altre azioni programmate, ben note a chi si occupa di psico logia di massa. In chiusura ritorno al cervello OptionaL, eletto quale baldanzoso porte-parole di un messaggio meneghettiano che sarà perce pito, ritengo, da quanti accetteranno di penetrare nel suo an tro e ascoltare. Parla in inglese (la lingua internazionale è nella logica, poiché per le cose orribili trattate — violenze, guerre, crisi, carestie — sulla Terra non esistono confini segnati), invi tando gli astanti (purtroppo solo la sera del vernissage), quando si sta gonfiando, a entrare nella sua cavità trasparente: è anco ra vuoto di idee e ritiene di poter dare conoscenza; e a uscire in fretta quando si sta afflosciando, perché — pericolo! — PENSA.

Ennio Pouchard