LO SCHELETRO DELL'ARTE, LA PUBBLICITA' DELLA VITA
a cura di Achille Bonito Oliva

Per la mostra di radiografie di Renato Meneghetti una giusta epigrafe è questa citazione: "Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario - la vita 'reale' naturalmente - che quel credito finisce per perdersi". Così nel 1924 André Breton apriva il Primo manifesto del Surrealismo, nel quale l'arte teorizzava una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolvere la realtà "mancata", quella quotidiana e puramente cronologica, attraverso l'affermazione di una surrealtà costruita dall'immaginazione, dal sogno, dalla "follia" che il quotidiano riesce solo a sospettare (una finestra sull'interno, cioè sull'inconscio). Perché il quotidiano si svolge sotto il segno della parzialità e dell'inadempimento, in cui le azioni e la produzione di gesti non sono assolutamente quello che Kris definisce "il servizio dell'io" ma, attraverso la loro stereotipia, tendono a portare l'uomo verso il movimento apparente, verso la paralisi. Già il Dadaismo, in particolare il Cabaret Voltaire, aveva posto l'accento sulla capacità attivamente liberatoria dell'immaginazione, quale deterrente pratico per rifondare l'arte a un livello antropologico. Solo che questo avveniva con felice e deciso cinismo, nella consapevolezza che partire dalla tabula rasa significava anche tornarci (in un mondo dove tutto significa e niente significa), senza feticizzare la specificità del momento creativo, dell'opera creata. Anzi, a Dada interessava, attraverso l'affermazione del gioco e dell'assurdo, lo scardinamento della nozione di lavoro artistico, quale produzione particolare e privilegiata dell'immaginazione. Con il Dadaismo, allora, l'arte è veramente al servizio dell'io e, tranne nell'eccezione del gruppo berlinese, non è mai al servizio del noi, inteso come corpo sociale che pratica a livello comunitario la propria liberazione attraverso l'esperienza artistica. Qui il livello politico consiste nell'affermazione totale dell'io, sottratto alla quotidiana parzialità e consegnato a una globalità che continua comunque a riguardarlo individualmente. Lo scarto e la diversità del Surrealismo consistono invece nell'affermazione di un'arte come pratica liberatoria dell'io e del noi. La pratica si svolge attraverso il recupero e il privilegio della nozione di lavoro artistico, nel senso di un funzionamento dell'io al di fuori del proprio cerchio egotico o attraverso il proprio cerchio egotico, fino a raggiungere la socialità e la storia.
Nelle neo-avanguardie la creazione artistica diventa allora il tentativo di riparare alla subnormalità del reale, nel caso di Meneghetti e delle sue radiografie, è ricreare, secondo il concetto di Melanie Klein, l'origine della creatività, lo sviluppo dei simboli e del senso di realtà. "Ogni creazione è in realtà la ricreazione di un oggetto che un tempo era amato ed integro, ma poi si è trovato ad essere perduto e rovinato, di un mondo interno e di un sé frantumato; se l'opera d'arte è per l'artista il modo più soddisfacente e completo con cui poter alleviare il rimorso e la disperazione nascenti dalla posizione depressiva e ricostruire i suoi oggetti distrutti, essa non è d'altronde se non uno dei molti modi umani per conseguire questo scopo ." (H. Segal, Introduzione all'opera di Melanie Klein, 1968). Ma Meneghetti non tende a considerare intercambiabile l'operare artistico con le altre attività umane, bensì a privilegiare in maniera specifica le tecniche della creatività artistica, fino alla radiografia del corpo. L'opera diventa la testimonianza, il lapsus del desiderio di riportare, dal livello del segno evidente, l'io alla propria unità scheletrica. L'unità si pone come trasgressione della parzialità strutturale entro cui vive gettato il mondo, il quale tende sempre a dare questa unità come impossibilità. Così si ricostruisce l'eccentrico e l'esemplare, esperienza particolare che non è data a tutti e che l'artista cerca in qualche modo di mascherare, rendendo clandestino il proprio spazio operativo, riportato a tecniche usuali e didattiche. Ma riparare l'oggetto significa anche ridare funzionamento all'oggetto sociale, al corpo della comunità, che invece vive separato nella distanza stupefatta della contemplazione. La comunicazione diventa dunque lo specchio opaco dentro il quale l'artista misura la propria diversità, accrescitiva per se stesso, ma parametro paralizzante nei confronti della società. "Il successo dell'artista deriva dall'essere egli pienamente capace di riconoscere ed esprimere le sue fantasie ed ansie depressive. Nell'esprimerle, egli compie un lavoro simile a quello del lutto, in quanto ricrea interamente un mondo armonioso che viene proiettato nella sua opera d'arte." (H. Segal, Introduzione all'opera di Melanie Klein, 1968). La coscienza della diversità dell'opera rispetto agli altri oggetti del mondo, della diversità dell'io artistico rispetto all'orizzontale anonimato del noi, costituisce per Meneghetti l'arte come, appunto, idea del lutto. Qui tale idea si afferma anche nel fatto che l'articolazione del linguaggio, associando dati estrapolati da diversi contesti, crea sì relazioni inedite e nuove esplosioni di significati, ma anche la loro definitiva consistenza pacifica. La forma blocca le relazioni inedite in una sistemazione che risponde al disordine con un ordine nuovo. L'idea di lutto si afferma quasi come mentalità costitutiva dello stesso linguaggio artistico, che ineluttabilmente propone una contemporanea nostalgia del disordine perduto. L'ideologia del negativo è, a mio avviso, l'ideologia portante anche dei Surrealismo in quanto nasce dalla coscienza dell'arte e del suo contrario, il mondo, del conscio e del suo contrario, l'inconscio. Nasce cioè dalla coscienza infelice della duplicità di ogni gesto, dell'impossibilità di ribaltare, l'io fuori di sé. L'affermazione passa dunque attraverso la negazione, la ricostruzione si fonda sulla distruzione. "Il costruirsi esige la distruzione dell'oggetto nell'inconscio. Ciò significa che lontano dal situarsi in un registro fusionale in cui oggetto e soggetto formano un'unità, l'atto creatore si pone in una relazione di alterità." (J. Chasseguet Smirgel, Per una psicanalisi della creatività e dell'arte). In un racconto di Edgar Allan Poe, un pittore fa il ritratto alla sua donna. Man mano che egli procede nella realizzazione dell'immagine e i segni si precisano sempre più sulla tela, la modella progressivamente impallidisce e perde la vita. Quando il pittore ha ultimato il quadro e i colori della donna sono passati nel quadro stesso, essa finalmente muore. Il linguaggio dell'arte tende sempre a segnalare la tensione verso l'unità, come impossibilità, come affermazione invece dell'alterità, l'oggetto compiuto a cui il soggetto, l'io creatore, non riesce ad unirsi, ma che anzi può soltanto espellere da se stesso. In Meneghetti l'arte diventa la soglia dove l'artista omologa la propria unità perduta e ingenera contemporaneamente, proprio per questo, il senso di colpa. L'oggetto prodotto, l'opera, non è lo scioglimento dell'oggetto, è l'esercizio di un'attività che per farsi riconoscere abbisogna infine della prova tangibile, lo scheletro, che è sempre un'entità separata dalla carne, interrotta nel rapporto col suo creatore. L'opera in Meneghetti è l'idea così di un lutto irrisolto, quello che la Chasseguet Smirgel definisce "la posizione depressiva che non permette al soggetto di espellere l'oggetto distrutto con il quale è obbligato a identificarsi". La produzione artistica, l'impossibilità di identificazione con l'oggetto prodotto, provoca nell'artista una tensione verso la morte. Esiste un'opera di Ernst che descrive due fanciulli minacciati da un usignolo. Qui la morte non viene rappresentata, ma più malignamente sospettata. L'artista inverte il rapporto, ponendo sotto minaccia le presenze antropomorfe da parte di un animale che è comunemente segno di leggiadria e di canto. L'artista, invertendo il senso comune, pone la realtà sotto il segno della morte e della minaccia. Un segno negativo che tende maggiormente ad esplodere in quanto la visione è nitida e tersa. L'idillio è rotto soltanto dalla terribile intromissione del titolo dell'opera che descrive la minaccia, il ribaltamento del senso comune significa riportare i rapporti accertati del mondo sotto il segno negativo della distruzione e dunque della morte. Qui la morte non è brutalmente rappresentata nei suoi codici terrificanti, ma data come minaccia e come allarme.
René Magritte tende ancora di più ad abbassare la soglia e la descrizione di tale tema, anzi tende a rappresentarlo come assenza.
L'esasperata analiticità dell'immagine rende flagrante l'assenza e verosimile lo svuotamento della realtà. Il divano di Madame Récamier è vuoto, così l'accessorio viene defunzionalizzato in quanto non esiste la presenza umana per omologarne il significato. Qui la messa a morte della realtà rappresentata è nell'azzeramento di ogni significato e nel portare ogni dato prelevato sulla soglia del linguaggio. Dove ogni cosa è sostituita dal proprio segno ed ogni segno non è più la stessa cosa: la pipa non è più una pipa. In Meneghetti l'allarme consiste nel rappresentare la realtà in tutta la sua integrità visiva, lo scheletro radiografato, in un'interezza che non può essere più toccata, nemmeno sottratta, in quanto vive nello spazio della paralisi dell'immagine che non permette più nessun movimento, se non quello fermo di uno sguardo definito e definitivo. In Balthus il quadro non è l'assenza, ma lo spazio particolare dell'assenza in cui la misura spunta i propri strumenti su se stessa e si organizza a ordine definitivo del silenzio. Salvador Dalì impiega l'evento come strumento barocco di descrizione dei tema della morte. Se la vita è l'incessante pulsare degli attimi, la morte è l'arresto traumatizzato di ogni pulsione. L'iconografia dell'orologio liquefatto rappresenta il terrore infantile del tempo che porta ogni cosa alla propria putrefazione e all'annullamento.
L'ossessione della morte in Meneghetti, per la persistenza radiografica dello scheletro, diventa monomaniacale e cordiale, ridotta a descrizione di un quotidiano in cui ogni stile viene contaminato e ogni immagine pareggiata. La metafora del linguaggio artistico viene stravolta fino al proprio contorcimento, la realtà deborda dal proprio peso specifico e si espande senza alcun decoro. Perché la metafora non sottrae il suo creatore alla mania e alla paura, anzi gli conferma l'impossibilità di un gesto risolutore ed assoluto. Ogni simbolo diventa il proprio contrario.
L'epigrafe tombale di Duchamp dettata dallo stesso artista sentenzia: "D'altronde sono sempre gli altri che muoiono". Il paradosso è evidente, la frase è stata composta dalla persona che giace fredda e decomposta in uno stato ormai irreversibile. La proposizione diventa una sfida o una sciocchezza. Una sfida all'ordine biologico della vita, sempre suggellata dall'evento della morte, da parte di chi ritiene di essere fuori dal sistema antropologico e di poter annunciare pubblicamente la propria eccezione. "Nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità." (S. Freud, Il nostro modo di considerare la morte, in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915). Su quali basi avviene l'annuncio della propria immortalità? Di quali armi dispone Duchamp nell'ostentare la propria sicurezza? I documenti fotografici ci restituiscono le immagini di un uomo sottile e melanconico, come testimonia J. J. Lebel, senza manifesti attributi fisiologici che ne possano annunciare una vita duratura e immortale. Allora il discorso va spostato fuori del campo fisiologico in un territorio più impalpabile e volatile, quello della cultura e dell'opera. Qui Duchamp dimostra saggezza e lucidità, profondità e spessore, una capacità complessa di rimandi, una stratificazione di citazioni che lo definiscono come artista e saggio, portatore di coscienza critica.
Meneghetti comprende che l'intellettuale detiene l'ordine sovrano del discorso, ma non un'effettiva sovranità. Capisce che il sapere, poggiante sul puro logos, essicca le cose, riducendole a un catalogo asettico di eventi astratti e designificanti la loro profonda motivazione.
D'altronde la sovranità spetta a Duchamp, in quanto egli non si è tenuto alto, fuori dal quotidiano, ma lo ha attraversato per giungere fino alla propria epigrafe. Ha attraversato la materia e lo stato basso delle cose, lasciandoci i ready-made come prova di un percorso inverso e diverso rispetto a quello normale del saggio e del sovrano. Ha applicato all'oggetto lo stesso procedimento della sentenza, sollevandolo dal piano utile dell'uso e conferendogli un diverso tipo di economia, simbolica e mentale (questo è il grande realismo di Duchamp).
Ora l'oggetto danza sospeso, sollevato in un'altra atmosfera, soggiogato dall'esercizio di una sciocchezza conferente un'altra funzione, secondo un principio d'autorità che trasforma le cose, dando loro altro statuto e identità.
La sciocchezza è pronunciata da Duchamp, ma è resa effettuale dal corso della vita che non riesce a discostarsi dalla morte. Allora a Meneghetti conviene stabilire la propria responsabilità, esercitabile dall'artista nel suo luogo deputato, l'opera e il pensiero. Egli esegue il proprio numero, il doppio salto mortale, in un'utopia fuori dal quotidiano. E' ciò che provoca saggezza e consapevolezza, che oltrepassa il limite della ragione ed autorizza l'artista ad assidersi sul trono, nel luogo impensato dell'immortalità. La radiografia del pensiero provoca l'investitura sovrana, nello stesso tempo la rinvia a una verifica che avviene direttamente nell'opera.
Se all'inizio Burri può affermare con Nietzsche che "noi cresciamo come alberi", se usa il processo creativo come metafora della crescita biologica e dell'espansione naturale, alla fine l'opera, nella sua definizione formale, diventa il momento traumatico che indica il punto dove tale crescita si interrompe, dove i rami e le radici diventano un'unica cosa, un circuito chiuso che rimanda con nostalgia a un movimento avvenuto, ma ormai impossibile.
Quando Meneghetti ingloba i tempi del tempo e del suo fluire, allora diventa il segno del puro interrogare, il punto interrogativo che non porta a nessun approdo, che conduce al luogo della domanda primaria, quella della materia come nascita della morte.
In questo senso la pittura di Meneghetti approda alla soglia della forma, nella coscienza irreversibile di tale stato, nella condizione antropologica che non ammette repliche, in quanto fissa i termini e i confini di qualsiasi operare, anche di quello dell'arte. Qui la forma non è la morte, come non è nemmeno la vita: è il margine in cui l'esistenza e il puro agire si stemperano in una intenzionalità, quella che sottrae inesattezza alla materia. E la morte non è anteriore, appartenente al ciclo passato degli altri uomini, ma è già consegnata al presente nel destino chiuso dell'individuo. L'opera è diventata per l'uomo il volto della propria verità, come pure l'eventualità della sua morte.
La sua tensione cosmica è il portato di un'ideologia che pone l'artista con le sue pratiche esoteriche, sempre sostenute dal pneuma intenso della sensibilità, come centralità dinamica, punto di trasformazione della realtà. L'arte è un letterale affondo dentro la rete dei fenomeni, per ricavarne una sorta di pelle atmosferica e immateriale: la sensibilità. Solamente l'arte riesce a realizzare il lavoro del suo disoccultamento, soltanto attraverso il suo recupero è possibile possedere il senso della vita che non appartiene preventivamente all'umano. L'antropometria diventa la traccia, il resto, il reperto di una fluidità che trova sulla tela la propria definizione.
La sensibilità è lo stato primario della materia che permea la consistenza e la qualità delle cose, stato assoluto, solare e monocromo, che permette a Klein di porsi come architetto dell'universo e di affermare: "Il ne suffit pas de dire ou d'écrire; j'ai depassé la problématique de l'art. Il faut encore l'avoir fait. Et je l'ai fait. Pour moi la peinture n'est plus en fonction de l'oeil aujourd'hui; elle est en fonction de la seule chose qui ne nous appartienne pas en nous: notre Vie".
Se l'Iperrealismo ha come unica finalità la rappresentazione, l'uso dell'immagine come occasione involontaria di un recupero archeologico della realtà, proprio per questo nella sua produzione non esiste la dimensione temporale del presente, bensì solo una cinica adesione alla propria realtà effettuale.
La paralisi, l'assenza di vita, è il prodotto della scultura radiografica di Meneghetti, tutta formulata per citazioni. La citazione fissa e congela ogni moto, cancella ogni vitalità dei personaggi, resi emblematici in una teatralità svuotata e mortale, secondo una coincidenza tra rappresentazione e rappresentato. Un ordine geometrico, una splendente simmetria, presiede alla composizione, eliminando la diversità e riportando tutto il rappresentato al proprio stereotipo. Il confronto tra realtà e rappresentazione è praticato da Meneghetti attraverso lamine speculari.
L'immagine dinamica del rispecchiamento è lo spettatore, nella doppia posizione di oggetto guardato e di soggetto che guarda. Ora è lo specchio che spia la vita, che dà statuto all'esistente mediante una specularità che ritaglia dalle complesse relazioni del mondo soltanto ciò che tenta una propria frontalità a esso. Il reale trova la propria presenza soltanto quando accetta la cesura, la possibilità di mettersi nello stato paralizzato di segno inerte.
Il linguaggio di Meneghetti è sempre sottoposto a una fissità che è quella della convenzione della visione, alla natura dello sguardo abituato a guardare il mondo attraverso l'occhio della memoria culturale. La memoria non è soltanto quella dell'esperienza soggettiva ma anche quella collettiva della cultura: un occhio cristallino e terso che non batte letteralmente ciglio ma organizza i propri procedimenti di visione sulle tangenti della storia del linguaggio, una storia chiusa in sé e organizzata secondo parametri speculari. Meneghetti pratica un'analisi dell'arte come sistema autonomo e autoreferenziale. La sua ricerca si muove nei labirinti del linguaggio dell'arte e della sua storia, lungo un percorso che si snoda entro i confini del suo dominio chiuso. Artificio e specularità sono le qualità della rappresentazione: artificio come differenza della realtà, specularità come movimento interlocutorio dei linguaggio dentro i meandri dell'arte. Se l'arte si muove all'interno del proprio sistema e trova come unico referente il labirinto, questo significa che la produzione dei suoi linguaggi vive anche sotto il segno dell'entropia. L'entropia dell'arte significa il problema dell'esaurimento di un linguaggio sottoposto alle infinite usure del suo uso. Il conseguente approdo è allora la tautologia il luogo in cui non esiste più il movimento della connotazione, bensì quello di una perentoria e concreta affermazione della realtà immobile del linguaggio.
L'evocazione della dimensione naturale corrisponde in Meneghetti all'atteggiamento magico di riduzione della storia a funzione personale ed espressiva. Ogni materiale del mondo perde la valenza della propria oggettiva identità, per piegarsi all'uso inedito cui lo destina l'artista: l'immagine radiografica dello scheletro.
Così tutti i materiali vengono pareggiati da una memoria primitiva, che non si lascia sconfiggere dalle categorie di naturale e tecnologico, ma segue solamente la strategia organizzativa della propria fantasia.
Recuperare la matrice naturale non significa stabilire un'alternativa formulata contro l'automazione, ma la possibilità di situare la natura nel presente, oltre la distanza della nostalgia contemplativa. L'artista crea un rapporto strutturale, di completa integrazione, tra il dato recuperato e il dato formulato dalla ragione fantastica (la forma). Il recupero non consiste in un atteggiamento archeologico, ma è l'indicazione di una giusta sopravvivenza dell'elemento naturale. Esso sopporta la connessione formale della fantasia, perché non ne viene corrotto il principio strutturale vitale: il movimento verso la smaterializzazione del corpo, lo scheletro.
La premessa spiega la posizione dell'artista verso l'arte che segue sempre un procedimento analogico naturale. Nel tempo tale procedimento si è degradato, da analogico è divenuto sostitutivo durante un lungo processo di alienazione culturale che ha istituito l'interdetto e la censura. Meneghetti opera su un'idea dell'arte come forma di conoscenza, in cui l'esibizione materiale dell'oggetto diventa sollecitazione a nuove formulazioni del pensiero. Così l'arte diventa lo spazio della segnalazione (il problema dell'immortalità), in quanto accoglie e sviluppa un tema ossessivamente comune a tutta l'umanità: il superamento della morte. Se tutti gli uomini convogliassero le proprie energie in questa direzione, allora non ci sarebbero dispersioni ma anzi una concentrazione che tenderebbe a utilizzare l'energia mentale (il pensiero) come strumento di conservazione e salvezza della salute fisica del corpo.
In definitiva l'arte di Meneghetti rovescia la nozione di natura in antinatura, mediante citazioni di violenza, crudeltà e morte e costruisce tutta una serie precisa di opposizioni e di doppi a quella che è la più comune nozione vitalistica della natura. A questa l'arte risponde con la cultura quale strumento di perpetrazione dell'uomo come pensiero e dunque di immortalità, mediante una citazione ideologica che la trasforma e la ripropone in un modello più ampio e complesso.
Allora Meneghetti decide di non operare più su coppie d'opposizione, bensì di praticare un linguaggio perversamente polimorfo. Positivo e negativo diventano polarità che trovano un luogo in cui esercitare le proprie valenze in termini di simultaneità. Con l'arte non è possibile prendere decisioni pratiche, non è possibile entrare o uscire, aprire o chiudere. La porta di Marcel Duchamp è metafora e metonimia nello stesso tempo, è la soglia sulla congiunzione e in cui le opposizioni tacciono e le decisioni sono interdette, nell'apparente inerzia di un'architettura che segna il passo, che designa una doppia economia simultanea, quella dell'entrare e dell'uscire. La porta designa l'inciampo della funzionalità, l'indecisione programmata di un linguaggio che eleva a morte superiore la morte inferiore dei quotidiano. L'arte di Meneghetti conferisce all'immagine il sigillo definitivo elevando l'iconografia radiografica dello scheletro a natura morta, elevata a pubblicità della vita.

2002
Achille Bonito Oliva

 

 

 

ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO
Achille Bonito Oliva

Allora finalmente questa sera finisce il tormentone Meneghetti a Roma, per festeggiare mi son messo giacca e cravatta, è la quarta mostra; Meneghetti disceso dal veneto è arrivato fino all’EUR ad occupare finanche la Roma, voglio dire, senza far nomi, diciamo di Dechirichiello metà fisica metà no direbbe Totò. Io sono contento perché il mio rapporto con Meneghetti è cominciato come un fastidio perché lui in realtà era un’implosione creativa è il caso di dire, aveva bisogno di uno sfogo e quindi io lo tenevo a bada ma si è disciplinato e dalle quattro mostre secondo me viene fuori una figura un po’ onnivora, però man mano è entrato nelle problematiche dell’arte fuoriuscendo  con una facilità che gli nasceva da una professione, quella del pubblicitario, nella quale si gioca evidentemente con la comunicazione. Lui parte con questo tipo di atteggiamento, direi che nelle altre mostre era molto evidente la capacità di adoperare tutti i linguaggi, per, dicevo io, andare all’osso delle cose, allo scheletro, tanto è vero che ha usato la radiografia ma l’ha usata in un modo analitico, direi protoconcettuale e anche in anticipo rispetto ad altre persone che l'hanno poi usata, visto che i pubblicitari e gli artisti sono dei cleptomani. In questo caso il copyright gli spetta per l’uso anticipatore di quest’uomo portato all’essenza. Lo scheletro alla fine che cos’è se non una macchina, un elemento modulare e Meneghetti ogni volta stacca un modulo. Di questi moduli ne ha fatto installazioni, steli, ha fatto dei light-box, dei video. Come vedete son molto belle queste sculture qui all’entrata, può sembrare che siano ispirate all’arte primitiva, credo che anche la mia amica Mary Angela Schroth condivide, il mio pensiero anche lei ama molto l’arte primitiva, ma poi alla fine ti accorgi invece che anche in questi lavori c'è la capacità di Meneghetti di riciclare in termini creativi, di elaborare l’idea della spina dorsale e potete vedere come questa spina dorsale acquisti plasticità: possono sembrare dei vasi dalle forme tautologiche e infatti hanno questo rimbalzo alle origini che poi ritrovate sugli stendardi che completano l'installazione c'è sempre questa specie di modularità, questa specie di pittura che passa attraverso il tatuaggio, e poi comincia, diciamo si organizza e arriva alla pelle della pittura per farsi pelle anche con la scultura. Abbiamo qui quattro opere che viste, come dire, in maniera superficiale possono sembrare quattro sculture assolutamente uguali che rispondono a un cliché, possono essere quattro sculture tardofigurative e invece è il procedimento che le rende in qualche modo ancora una volta legate al cordone ombelicale dell’esperienza creativa di Meneghetti perché sono frutto di sculture fatte dall’interno. Meneghetti si è immerso in una sostanza che è quella adoperata dai dentisti per fare le impronte, immerso davanti e dietro e quindi lui è la struttura della scultura che nasce dall’interno. È una scultura, non è solo un calco, perchè ci possono essere tutte le letture drammatiche che vogliamo vederci: l’uomo di Vitruvio o di Leonardo che non ce la fa più, poi nella quarta scultura il sadismo di Meneghetti viene fuori, è l’uomo appeso dalle palle. Gli artisti sono un po’ così infondo, l'artista come dico sempre, è un errore biologico rispetto all’opera: fortunatamente in arte qualche volta, capita che resti l’opera . Continuando in questa carrellata, in questa interminabile carrellata nella quale anche voi siete immersi come me e per questo credo che ci daranno la pensione perché siamo per la quarta volta ad una mostra di Meneghetti. Quindi, oramai, siamo come una famiglia, e siamo effettivamente coinvolti in questa carrellata di opere, di mostre. La mostra che Mary Angela Schroth ha fatto a San Giovanni alla Scala Santa che poteva sembrare la mostra più isolata rispetto alle altre tre, invece si è rivelata proprio il frutto di questo nomadismo creativo di Meneghetti che apre sempre nuove possibilità espressive che come dicevo, sono un po’ la pelle della pittura, che supportano e reggono ancora una volta l’idea dell’impronta fino ad arrivare al lavoro della Sacra Sindone qui esposto, che non sono riuscito a fargli togliere  perché sono arrivato troppo tardi, scherzo, anzi capisco e direi che quest’opera è proprio il lapsus, la spia di questa sua capacità didattica che gli viene dall’estro comunicatore, dall’elaborato per la pubblicità.
La Sacra Sindone  diventa proprio l’emblema, la dimostrazione che lui viene da lontano. Se il Sudario è stato fatto 2006 anni fa dalla figura di Cristo asciugato sul letto di morte e quindi con l’impronta, Meneghetti qui realizza quella stessa immagine sulla pelle della pittura creando sospetti di scheletri; ancora una volta emergono gli elementi modulari degli scheletri che possono diventare  paesaggi, montagne, corpi di donne se guardate queste pitture liberamente, con l’occhio di Leonardo Da Vinci che descriveva quello che vedeva nelle muffe che l’umidità produceva sui muri del suo studio, e vedeva di tutto Queste opere pittoriche, queste immagini, sono

immagini per me liberatorie  e mi piace chiudere così il discorso e chiudere così anche queste quattro stazioni di via crucis con Meneghetti in maniera liberatoria con questi quadri che effettivamente dimostrano ancora una volta che quando c'è una forte e bella ricerca l’arte non è nè astratta nè figurativa, non vuole aggettivi. Grazie.

 

 

 

COMPLESSO MONUMENTALE DEL SANTO SPIRITO IN SASSIA
introduzione alla mostra
Achille Bonito Oliva

Dopo l’apologia di Smolizza, mi viene voglia di parlare male di Meneghetti e non sarebbe difficile anche perché io penso e dico sempre che l’artista è un errore biologico rispetto all’opera,  perché l’artista vive come gli altri uomini e muore, l’opera invece talvolta resta e dietro questa speranza di immortalità, c'è il desiderio di una traccia resistente e questo è ciò che mi ha convinto del lavoro di Meneghetti. Non è stato certamente il cognome che francamente non mi piace, se si fosse chiamato, non so, Masaccio, sentite come suona meglio, o Botticelli, Picasso, Meneghetti ne avrebbe guadagnato, effettivamente però non è colpa sua; quello che però  mi ha convinto, estremamente convinto, è il suo lavoro a partire dall’uso della radiografia, perchè secondo me lui nella radiografia riesce a sintetizzare sia il suo passato di peccatore avido di denaro, possidente speculatore edilizio, pubblicitario,  e tutto quello che di peggio si può dire di un artista, al servizio di un'arte che allora ancora non veniva individuata: la comunicazione. In realtà lui rovescia l’assurdo della pubblicità: la pubblicità veste l’umanità, l’arte la mette a nudo. Meneghetti arriva a smaterializzare con un ansia quasi protestante la carne debole, elimina la carne. Come sapete uno specifico antropologico della religione cattolica e controriformista approva la carne, anche lui penso approvi ma sviluppa  un’opera di scheletrizzazione, di riduzione quindi, con un assunto minimalista, per fare questa operazione usa la tecnologia in maniera non feticista, anzi, la pone al servizio di un’idea molto precisa. Gli artisti, i veri artisti, campano una vita su un’idea perché è un’idea ossessiva in Meneghetti è  l’idea della morte. Lui non lo sa, ma come diceva un proverbio “quando torni a casa picchia tua moglie, tu non sai perchè ma lei sì”, al contrario, io picchierei Meneghetti, io so perché ma lui non lo deve sapere ed è questa idea: il linguaggio dell’arte è una natura morta, il linguaggio paralizza, sottrae e contestualizza, riduce a paralisi se pure esemplare attraverso la forma, il movimento della vita che quindi è portata a definirsi in termini di immobilità esemplare, la bella morte, il linguaggio della bella morte: stabilito che la vita è la morte al lavoro e qualcuno deve pure lavorare, Meneghetti non è il primo artista che usa la radiografia ma il secondo: è la morte per prima ad adoperare lo scheletro. La morte è la prima figura ad adoperare lo scheletro e Meneghetti è il primo artista ad usare la radiografia capace di smaterializzare e inscheletrire l’apparenza, l’apparenza quale inganno o l’apparenza che inganna, e portare il corpo in uno stato essenziale. Io trovo lo scheletro una delle cose più belle, a me piace molto lo scheletro, io l’ho trovato sempre molto divertente e vi posso confessare una cosa: da ragazzo, mi si potrebbe definire un critico agrario perchè venendo da una famiglia della borghesia agraria della provincia di Salerno, nel palazzo dove io son nato trovai un teschio in un ripostiglio, un vero teschio, e con questo ci facevo i palleggi, ero incosciente evidentemente, ci giocavo allegramente, mi sembra una sfera pulita e non mi sembrava di mancare di rispetto, era una forma adattabile, perchè lo scheletro in realtà se voi lo guardate non è mai di cattivo umore, è in qualche modo bisessuale, diciamo androgino e d’altra parte attraverso un’androginia, si arriva a quella che potremo definire l’essenza dell’arte. Diciamo che il peccatore Meneghetti si riscatta da tutti i suoi peccati precedenti sviluppando con molta coerenza un lavoro in cui senza dubbio c'è dietro l’idea della comunicazione per arrivare all’essenza dell’immagine, della forma, l'idea del designer. Lo scheletro è il disegno del corpo, e anche l’architettura del corpo, quindi per Meneghetti è ovvio occuparsi pure di architettura e naturalmente, essendo lui un uomo del nord, purtroppo, quindi nevrotico, ritiene di essere dinamico ma in realtà è una persona depressa che ha bisogno di fare per non pensare, ma è l’opera che pensa, non l’artista. Meneghetti ha realizzato un gruppo di opere, oltre alle radiografie, che resteranno un lavoro, e qui lo dico ma non lo nego, importante: è stato il primo artista che ha adoperato la radiografia, prima anche di Gligorov, un’artista che a me piace e che porto con estrema esemplarità e  intenzionalità. In Gligorov non c'è una involontarietà, forse c'è anche un abuso perché naturalmente ne ha fatto di tutti i colori. Prima di queste mostre romane io pensavo Meneghetti fosse un imbalsamatore e invece è un decapitatore, in questo senso precede anche gli eccidi di Baghdad: se vedete all’entrata, l’installazione con le teste decapitate per la quale lui chiede interattività, partecipazione cioè il calcio dello spettatore eppure questo lavoro che è meno significativo della donna a lamelle di resina e radiografie, “Mutante”, che in realtà parte da Schlemmer e non credo che Meneghetti lo conosca; un artista che operava negli anni 20-30.
Gli artisti sono dei cleptomani da sempre e anzi io ho utilizzato la transavanguardia nella citazione e io sono il capobanda di questo tipo di teoria.
Oltre tutto essendo qui vicino ad un grande studioso del 500-600, Claudio Strinati, sappiamo bene che il manierismo nasce dallo stesso argomento storico in un’arte che non crede più nell’invenzione e non avendo più fiducia nel futuro si rifugia nella citazione quale riparo nell'almo del passato, nell'almo materno e porta poi alla nevrosi gli artisti manieristi, con anche qualche suicidio, mentre  la transavanguardia campa benissimo, nessuno si è suicidato purtroppo e anzi diciamo ha fatto suicidare altri artisti, se si può dire così in modo figurativo, perché è l’unica corrente meno Freudiana e più Totoista, nel senso dell’ironia, del disincanto, della comicità. Quindi una qualche citazione non è per svelare un peccato di famiglia è per dire che Meneghetti involontariamente sviluppa un’arte colta, perchè anche senza conoscere Schlemmer ci è arrivato con l’opera. Ritornando al discorso di com’è effettivamente il lavoro di questo artista, di Meneghetti, la radiografia, lo scheletro è il lavoro centrale di tutta la sua produzione e sintetizza tutti i suoi peccati di gioventù, i pregi anche multimediali e interdisciplinari di una diversa provenienza professionale, ma direi anche che Meneghetti conta molto sull'interattività. Ecco l’interattività, prendere a calci, faccio per dire, queste teste che lui ha decapitato cioè ha tolto al corpo, allo scheletro e ne ha fatto delle maschere; naturalmente qui c'è il riferimento a Nietzsche, d’altra parte Nietzsche ormai, come dire è nell'avanspettacolo e non si capisce perchè Meneghetti non può involontariamente anche lui sentirsi un Nietzschiano. L’interattività anche in rapporto a questo spazio espositivo del Santo Spirito in Sassia e anche agli altri tre spazi, e alle quattro mostre, spazi significativi; questo è uno spazio gestito da una società privata, trovo molto positivo questo coniugare un rapporto con l’istituzione, portare al funzionamento spazi che sono in equilibrio, sottratti alla vista del pubblico. E poi trovo favorevole questo cortocircuito tra passato e presente, tra architettura e arte contemporanea, al quale assistiamo qui al Santo Spirito in Sassia, essendo stato io uno dei colpevoli creatori di questa tendenza espositiva: nel '70 feci la prima mostra del genere in via Monte Cruciana nel palazzo Peruzzi, poi questo è diventato un atteggiamento generalizzato. Essendo io napoletano allora feci di necessità virtù. Non esistono musei di arte contemporanea, esiste una grande pittura del passato che non deve restare un ready-made, un oggetto “bell'effatto” sottratto all’utilizzo ma anzi, deve essere uno spazio usato come contenitore. Con queste opere Meneghetti ha dato un esempio favoloso, esemplare. Anche la mostra alla Sala 1, che è uno degli spazi più belli in assoluto che ci sono a Roma deputato all’arte contemporanea, è uno spazio straordinario e poi le mostre negli altri due spazi, quello dell’Archivio Centrale dello Stato e poi lo spazio del mio caro amico Strinati, Palazzo Venezia, da cui si affaccerà uno scheletro, ah no pardon, quello è il balcone in piazza Venezia, è stato un errore, speravo che potesse, se glielo dico Meneghetti lo fa pure, è un disastro, fa uno scheletro che si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia, questo Meneghetti non si fa, non si deve fare: io non posso affacciarmi perché mi arriva qua, quindi non faccia lo spiritoso. Ma Meneghetti  non ascolta e prontamente ha allestito le sue vetrate su tutte le finestre del Palazzo. Debbo dire pubblicamente che io ho contribuito a far concedere le grandi sale al primo piano, per esporre queste opere di Meneghetti perché trovo che questo spazio al meglio celebrerà, secondo me, questa scoperta linguistica di Meneghetti così si sfoga e poi speriamo che la smetta.

2006
Achille Bonito Oliva

 

 

 

PALAZZO VENEZIA
Achille Bonito Oliva

Buonasera, allora, questa è la quarta stazione e questa via crucis di cui ci ha condannato Meneghetti  che come sapete però, dopo ogni via crucis c'è anche la resurrezione. Io sono molto soddisfatto del lavoro di Meneghetti e lo dico con molta convinzione e altrettanto di queste 4 mostre.
Altre volte mi sono emozionato in questo salone e in particolare quando ho visto la mostra su Orazio Gentileschi e Artemisia ma, direi per le opere e anche per l’allestimento, questa mostra a me sembra dimostri che questo spazio possa diventare uno spazio, Palazzo Venezia, possa diventare uno spazio adibito proprio all’arte contemporanea. E' uno spazio percorribile e Meneghetti ha avuto l’intelligenza, a volte anche involontaria perché gli artisti fanno e poi sanno perché hanno fatto, perchè il suo fare in questo caso è stato proprio progettare questo percorso che trasforma queste  sale in un set.
In fondo noi ci troviamo di fronte in un set espositivo, dove non si fa del cinema, dove passivamente lo spettatore, in un rapporto di frontalità con la trama del film, si dispone immobile. Qui c'è invece la possibilità di una interattività, di una percorribilità, di una posizione attiva dello spettatore che viene stimolato da una multimedialità che è percorsa non da feticismo, ma da un'esibizione tecnologica fine se stessa, ma opere che contengono un fattore tecnologico di alta comunicazione. Che cosa comunica l’arte di Meneghetti? Questo è molto importante perchè la comunicazione può avvenire o perché si imita la moda e quindi una performatività spettacolare semplicemente che vuole tautologicamente affermare l’immagine di se stessi, oppure comunica ad un secondo livello di comunicazione e questo appartiene a Meneghetti e si parla di comunicazione estremamente attuale specialmente dopo i fatti dell’11 settembre.
Bin Laden, il terrorismo islamico, ha adoperato involontariamente la grande lezione di Andy Warhol, quel Andy Warhol che realizzò un famoso film sulle Twin Towers nel quale riprese per otto ore da fermo con la telecamera fissa quello che era allora il monumento più alto dell’architettura mondiale. Nel video, nei grattacieli inquadrati da fermo non succedeva nulla, l'immobilità assoluta, Bin Laden in fondo, ha rotto questa immobilità, facendo colpire la prima delle due torri con un aereo, la CNN si collega, ecco che in diretta abbiamo visto tutti, purtroppo, il crollo della seconda torre, il secondo aereo che perfora l’architettura. Da quel momento non è più possibile fare gli spiritosi, comunicare imitando la moda, bisogna stabilire un equilibrio, una distanza e una differenza critica. Meneghetti viene anche dalla pubblicità e quindi qualche volta eccede, perciò bisogna un po’ controllarlo, proprio perché ha lavorato in un campo dove sostanzialmente protagonista è il mezzo che amplifica, celebra, enfatizza la presenza di un oggetto, di una merce, Meneghetti va frenato. L'artista qui ha realizzato un percorso all’inverso: se la pubblicità come la stessa moda serve a proporre il consumo, se la moda serve a vestire l’umanità, l’arte la mette a nudo e direi che l'ha messa a nudo nel caso di Meneghetti avviene attraverso una multimedialità  che cerca una comunicazione su alcuni contenuti, io vedo che l’arte di quest’ultimi anni ha segnato a livello internazionale il recupero dei contenuti, non che siamo tornati al neo-realismo per carità e al realismo, ma ci troviamo di fronte ad un realismo tecnologico dove in effetti Meneghetti si mette a servizio e vuole trasmettere messaggi che riguardano la cronaca, quindi la violenza, i soprusi, la sopraffazione, il razzismo, la differenza. Il sistema di immagini che Meneghetti ha realizzato per queste mostre progettando anche un percorso che ha attinenza con l’architettura, questo grande muro su cui sono installate lastre radiografiche dipinte, che mostrano  quella che poi è la principale scoperta stilistica di Meneghetti, e la radiografia, e cioè la messa a nudo dell’umanità, l’uomo riportato alla sua architettura primaria, allo scheletro. Questo scheletro diventa allegro, è uno scheletro che non è segnale di morte ma è uno scheletro portatore di conoscenza.
Infondo il percorso di Meneghetti è, specialmente qui a Palazzo Venezia, un percorso poco conosciuto che vuole sviluppare anche interattività.
Queste teste che voi state rubando, mettendo sotto i cappotti, ma sarete tutti controllati all’uscita ci portano in un altro spazio dove abbiamo inaugurato la prima mostra, uno spazio ai bordi della Città del Vaticano, Santo Spirito in Sassia, lì c’era la possibilità, proprio camminando, di rompere queste teste e il messaggio era semplice: l’indifferenza sviluppa rottura, violenza, è chiaro che se il contenuto fosse solo questo sarebbe un contenuto banale  ma linguisticamente l’elaborazione che noi troviamo in questo lavoro delle teste e che rimbalza attraverso la macchina che mangia e sputa denaro, il muro, che non è un muro del piano, è un muro policromatico, linguisticamente pregnante  questo scheletro che vedete diventa diverso, iconografico, e poi più avanti vediamo un globo terrestre, universo stocastico, un universo che si muove secondo una certa casualità ecc… Perchè l’operazione di Meneghetti secondo me, è impregnata da una sorta di neo-umanismo, nel ventunesimo secolo secondo me questo, è un’operazione estremamente puntuale e politicamente attuale e per niente patetica, io ritengo che l’arte deve confrontarsi con la storia ma anche con i problemi di un tempo incerto come questo altrimenti è condannata a tornare in una nicchia di attenzione, privilegiata da una parte ma soffocata dall’indifferenza collettiva. Io credo che un artista e l’arte debbano avere una visibilità e l’arte può seguire ancora, massaggiare il muscolo atrofizzato della contemplazione collettiva, stordito dalla pellicolarità televisiva, da una spettacolarità fine se stessa e invece qui all’universo ce il tentativo attraverso il percorso di creare un nomadismo attivo, protagonista e consapevole. Grazie.

2006
Achille Bonito Oliva