Non è strano ma la nascita del cinema con i fratelli Lumière coincide con la scoperta dei raggi X di Conrad Roentgen. Il 1895 diventa la data di nascita di ciò che intendiamo oggi per società dell’immagine e di ciò che più chiaramente è diventata la lettura dell’inconscio, meglio del non visibile, che il nostro corpo (non) nasconde. Più ancora nel Novecento il cinema è diventato un’osservazione esteriore ed universale che ha imprigionato l’immaginario delle masse, mentre invece i misteriosi raggi ionizzanti sono diventati una visione interiore e individuale del soggetto umano, anzi del suo essere troppo umano. Renato Meneghetti raccoglie da artista questa forma e questa tecnica di analisi in profondità raccogliendo una storia universale e particolare. Non più un’artista “autore” che marchia le proprie opere come il possesso delle proprie capre ma un adepto che permeato/trapassato da raggi invisibili, restituisce con luci e ombre o più con ombre che con luci, questo passaggio istantaneo e assoluto di una luce senza luce, registrato da una lastra come da un’anima. Dicendo quasi tutto di lei e del suo corpo.
Per registrare questa pioggia di luce bisogna saper ritornare allo spazio delle cattedrali gotiche e forse allo spirito gnostico. Qui il soggetto immerso nel canto dei cori battenti, nella navata della cattedrale era quasi bagnato dalla luce delle vetrate nelle quali si vedeva immerso come nell’acqua iridescente di una cascata. Questa luce cromatica lo trapassava, ma secondo le sue convinzioni spirituali, corpo e anima tornavano, per via“anagogica” alla luce originaria, quella divina.
Nei venti anni che chiudono questo secolo le opere di Meneghetti sono un continuum di esperienze cine-grafico-fotografiche, tecniche moderne e molto antiche, tuffate nella magica vetrofania delle camere ottiche nonché nelle vetrate vere e proprie che lui pensa di esaltare addirittura con manifestazioni notturne (Progetto di installazione per il Millennio della città di Bassano del Grappa). Le sue opere hanno un’origine nascosta che sfugge alle tappe tradizionali della storia dell’arte ma che diventa essenziale nella storia delle costruzione delle immagini fatte per essere viste.
Il secolo dell’incisione e della grafica, il Settecento ha rivelato aspetti nuovi anche dell’editoria moderna. I Remondini hanno diffuso insieme al libro raccolte popolari di stampe colorate a mano, lacche povere e silografie con giochi dell’oca dai colori primari.
Partendo da una città come Bassano che è diventata il tempo e il luogo di Meneghetti, hanno portato con i messaggeri della carta stampata, i Tesini, un universo incognito fino a San Pietroburgo e in Moldavia luoghi di notti bianche e sanguigne, almeno nell’immaginario di tutti.
Esistevano nel Settecento tecniche di riproduzione grafica, sconosciute o abortite per la difficoltà di applicazione, che sembrano gli antecedenti materiali delle elaborazioni di Meneghetti. Per esempio la mezzatinta, che possiamo assimilare al nero fotografico, ottenuta sopra una lastra con un sistema fittissimo di piccoli segni che sarebbero serviti a riprodurre un paesaggio notturno, altrimenti irriprodrucibile con l’incisione tradizionale. Questa si dice anche “maniera nera” ed è una tecnica prima di essere uno stile. Un punto di partenza che servirà, con quattro lastre diverse (nero, blu, giallo e rosso) assai prima di ogni quadricromia ad ottenere le prime riproduzioni a colori. Dato il loro aspetto non comune queste stampe servirono quasi esclusivamente a raffigurare atlanti anatomici o mappe di muscoli umani ed animali. Il signor Jacques-Fabien Gautier aveva rubato l’invenzione allo sfortunato Jacob Christoph Le Blon per mettere insieme un trattato di Myologie complette en couleur (1745-48) che interessò solamente gli addetti tranne per un’immagine: Donna vista di schiena, sezionata dalla nuca all’osso sacro. Un simile titolo della tavola desta un effetto tristemente da autopsia se il soggetto non fosse stato salvato da un’osservazione di Jacques Prévert che ricolloca in un altrove questa immagine, portandola fuori dal suo tempo e reintitolandola: L’angelo anatomico. Si tratta di un’interpretazione surrealista grazie a considerazioni specifiche: “une jolie femme aux ?paules nues o plut™t d?nud?es avec la peau rabattue de chaquecot?... Horreur e splendeur viscerales”. Orrore e splendore viscerali — dice Pr?vert. Splendore orrendo e orrore splendido diventano ossimori critici molto adatti alle duplici immagini di Meneghetti. Ma queste immagini hanno riacquistato uncolore originario e primario insieme, partendo dalla “manieranera” che è solamente ciò che la luce è diventata passando tra i maggiori o minori ostacoli di un corpo. Si tratta di lastre, abbiamo detto, e questa parola può evocare tutto ciò che può coprire un corpo o rivelare una salvezza nascosta. I materiali di Meneghetti, le sue lastre totali, sono anch’essi come salvati da aloni cromatici e da campiture che li riportano ai loro corpi originari: al ritratto vivo e fossile di un pesce persico e di una sardina (Ritratto di pesce persico e sardina, 1999) come al ritratto selenico di Renato (1/4, 1/3, 3/4,intero, cranio di Renato, 1996) che in questo momento ri-nasce quasi con l’effetto di una Sindone, che è un’icona vera quanto una divinità quotidiana. Anche gli Aborigeni disegnano spontaneamente pesci o altri animali con una tecnica che noi chiamiamo ai raggi X, per collocare l’immagine in quella che loro chiamano età del sogno, luogo immateriale dal quale partono le forme di tutti i corpi e al quale tutto si ricongiunge.
Come Ulisse che parte e ritorna(ma non sa se ritorna) si diventa uomini ed eroi solcando mari “color del vino” (Ritratto di Ulisse nell’Egeo I II III IV V VI, 1997), sapendo dimenticare più che ricordare, per ritrovare la strada di casa accanto ai colori verde-azzurri dell’isola a lungo abbandonata. Viene vista in avvicinamento anche Proserpina divinità oscura sempre presente all’Ade che ha anch’essa un doppio volto, alla luce dei fatti (Ritratto di Proserpina negli Inferi, 1997 e Ritratto di Proserpina nella luce, 1997). Volto-doppio, smascherato fino all’osso che infine si può osservare a lungo a differenza delle due cose che a detta dei filosofi non si possono fissare troppo intensamente: la morte e il sole.
L’arte ritorna sempre a un suo principio. Dal deserto rinasce una città o quella dissepolta o quella dei nomadi. La tela innervata di vene e radici o di campi magnetici dal titolo Ritratto di Leonardo nel Sahara (1997), fa rinascere come un’eco vicina un messaggio che Leonardo nel Libro di Pittura indirizzava agli artisti:
Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie, de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del pittore a nuove invenzioni si di componimenti di battaglie, d’animali e d’uomini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perchè saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni. Ma fa prima di sapere ben fare tutte le membra di quelle cose che vuoi figurare...
La pittura in ogni sua espressione diventa, per chi sappia guardare e raccogliere, un sistema di dissoluzione e di concentrazione in un “ritorno quasi eterno” che si può contemplare solo dall’osservatorio delle arti e della poesia. In queste immagini raccolte nella loro deformazione pulsante appaiono le strade dell’arte, sentieri che si interrompono per aprirsi in una radura che non è mai esattamente la stessa. Qui si riconoscono come viandanti Gustav Klimt, Costantin Brancusi, Francis Bacon, Salvador Dalì e Jim Dine che Renato Meneghetti ri-vede nelle sue conformazioni ectoplastiche che non rinunciano alla tecnica pittorica, per una presunzione concettuale ma diventano materia magica (Omaggio all’uomo di Neanderthal, 1998) per poter parlare con il nostro simile più lontano, l’altro & l’altro ancora che non conosciamo in noi.
Manlio Brusatin
2000