RADIOGRAFIE DI UN DESTINO
a cura di Gillo Dorfles

A volte un mero dato tecnico; alle volte un grave evento esistenziale, possono determinare l’esplodere d’una forma artistica che – latente – si nascondeva nei meandri della propria coscienza o del proprio inconscio.
Nel caso di Meneghetti è stato addirittura l’incontro di un artificio tecnologico e di un evento cruciale a suscitare l’esplosione di un’attività che in precedenza aveva oscillato tra svariati tentativi creativi: dal collage al design, dalla scultura alla pittura, ma senza che una vera “costante stilistica” fosse davvero emersa. Invece, a partire dagli anni Ottanta una nuova fase della sua creatività doveva farsi strada e diventare l’aspetto dominante di quasi tutta la sua produzione. Di che si trattava? Innanzi tutto d’un episodio che era di per sé drammatico e che avrebbe potuto segnare tutta l’esistenza d’una sua figlia: una bambina allora di quattro anni fu vittima di un grave incidente. Solo l’energia, la disperazione, la fiducia nelle terapie, il ricorso agli specialisti più noti in Italia e in America, riuscirono a risolvere quel grave problema. Prima di giungere alla guarigione, peraltro, furono scattate per i diversi controlli, decine e decine di radiografie che, di giorno in giorno, di mese in mese, segnavano le tappe del risanamento. Ebbene, quando Meneghetti si trovò davanti a questa serie di immagini, evanescenti e al tempo stesso “parlanti”, suggestive di atmosfere, personaggi, paesaggi, quasi fossero gli embrioni di forme ancora da sviluppare, una nuova fase creativa si venne a schiudere per lui.
L’intervento su queste radiografie - ingrandite, fissate sulla tela sensibilizzata e poi, metamorfosate in dipinti autonomi attraverso l’uso di inchiostri alcolici - portò alla realizzazione d’una sorprendente serie di opere dove la personalità dell’autore riusciva a dominare l’aleatorietà della primitiva immagine radiografica, e a conferire alla stessa dei significati del tutto nuovi che solo la fantasia dell’artista poteva individuare. Non era sufficiente, infatti, valersi delle trame della pellicola per costruire un’opera a sé stante, ma era - ed è tuttora nelle prove più recenti - indispensabile “scoprire” quegli elementi iconologici che potevano sfuggire a prima vista e che invece si annodavano tra le ombre e le luci della lastra.
Oggi, che l’uso del medium radiografico è estremamente diffuso in molte situazioni pittoriche e in molto materiale pubblicitario, il tipo di tecnica usato da Meneghetti non desta più sorpresa o scandalo; bisogna per altro riconoscere che egli è stato indubbiamente tra i primi – e forse il primo in assoluto – a comprendere l’interesse estetico oltre che scientifico di questo mezzo; e soprattutto a individuare il significato profondo di tale impiego. E, infatti, la sua opera non si può apprezzare a pieno se non si tiene conto di quella che è stata l’origine prima della stessa come ho appunto ricordato. Il che giustifica anche l’uso così anticipatore (1979) di questa tecnica come base d’una progettazione artistica. Ognuna di queste radiografie costituisce lo stimolo dal quale l’artista ha saputo e sa recuperare uno spunto immaginifico. La primitiva “lastra” infatti si trasforma, volta in volta, in ritratto, in composizione astratta, ma anche in paesaggio, in catena di montagne, in mareggiata, ecc...
A seconda dei casi gli stessi colori “aggiunti” all’evanescente trama fotografica acquistano una valenza, ora naturalistica, ora decorativa, e permettono a Meneghetti di inventare delle situazioni storiche, cronachistiche, familiari, politiche ecc. Si veda ad es. l’affascinante «Autoritratto al chiaro di luna» dove la Rx del cranio si trasforma nell’astro notturno; oppure il «Ritratto di Gengis» dove la Rx del bacino diventa un volto lugubre e imperioso, o il «Ritratto di Rocky», un bacino che diventa cranio, le anche che diventano polsi che sovrapposti vengono a sostituire degli occhi; e che dire del «Ritratto di Erich in Marocco» dove l’atmosfera decisamente tropicale è ottenuta sfruttando le immagini radiografiche delle ginocchia? Un diverticolo intestinale si trasforma nel «Ritratto di Maria Pia sotto la pioggia», mentre il «Ritratto di Maximilian a Haiti» non è altro che una Rx del bacino con gli “occhi” spalancati nel vuoto. Il fatto che alla base di tutti questi lavori ci sia sempre un elemento “organico” - arcata dentaria, articolazione coxo-femorale, cranio, torace, matassa intestinale, o addirittura lo scheletro d’un uccello, d’una pianta - non ha più che un’importanza “storica” o documentaria. In realtà le Rx si sono trasformate in intime memorie, in ricordi, in sensazioni di fronte alla natura, al mare, e sono divenute patrimonio “pubblico” anche se derivate da un episodio del tutto privato come quello della figlia (bambina), come quello - spesso ripetuto - dello stesso corpo dell’artista o di amici e conoscenti che si sono prestati alla “radiografizzazione”.
Rimarrebbe a questo punto da dire qualcosa a proposito delle valenze “pittoriche” di queste opere che naturalmente sono limitate dall’uso necessario della tela sensibilizzata, come supporto e dei colori alcolici come mezzo cromatico.
Queste limitazioni sono alle volte evidenti, e tuttavia, sono anche un benefico “freno” che costringe l’artista a rimanere entro l’arginatura del medium impiegato anche se spesso i lavori più efficaci sono da individuare in quelli dove l’intervento pittorico è più netto e dove la trama offerta dalla Rx appare più deformata e irriconoscibile. E’ così per alcune delle ultime opere dove è stata usata come materia prima l’ecografia anziché la consueta Rx; giacché queste ultime, proprio per la peculiarità tecnica, appaiono meno nette e stagliate, più nebulose ed evanescenti delle altre, il che permette di “individuare” nelle stesse paesaggi crepuscolari, alberi, tramonti, con un “lirismo” pittorico insolito e assai suasivo.
In un momento dove l’arte visiva si trova di fronte al dilemma se abbandonare la pittura tradizionalmente intesa e ridurre il proprio campo d’azione esclusivamente alle performance, alle installazioni, ai collage oggettuali, ecc... questa operazione di Meneghetti gli consente di scavalcare il confine tra astratto e figurativo, tra videoarte e fotografia, e di valersi bensì d’un mezzo che solo la tecnica contemporanea ha reso possibile in seguito alle scoperte scientifiche, ma che tuttavia gli permette un intervento autonomo dove artificio e natura ancora una volta possono convivere e cooperare.
Certo; si potrebbe affermare a questo punto che, anche le “chiazze” sul muro nelle quali Leonardo scorgeva misteriose figure, o le macchie d’inchiostro schiacciate del test di Rorschach ci presentano gli abbozzi aleatori e occasionali da cui possono prenderne l’avvio opere pittoriche successive; il che del resto vale per ogni arte e non solo per la pittura. Quanto spesso è un ritmo, un suono, un singolo vocabolo, a fungere da embrione d’un opera poetica, letteraria, musicale. E questo è indubbiamente vero anche per i lavori di Meneghetti. Con una sostanziale differenza, tuttavia: che alla base di queste immagini, così insolite e sconvolgenti, esiste sempre la drammatica presenza di un nucleo organico preesistente e appartenente a un individuo, a un animale - pesce, uccello - comunque facente parte della natura circostante e non costruito esclusivamente da una stimolazione meccanica. Il pericolo, semmai, è quello d’un fossilizzarsi della fantasia rivolta a un’unica fonte immaginifica – o diciamo pure, «mitopoietica», il che, però, non avviene dato che l’artista ha saputo esprimersi precedentemente in molti modi diversi, attraverso il design, la scultura, la musica, ecc.
Credo, pertanto, che in questo caso si debba riconoscere alla Rx un ruolo primario con una fase esistentivamente intensa e drammatica nella vita dell’autore. Una fase che è stata - involontariamente - la matrice di tutta una operazione di eccezionale intensità.

Gillo Dorfles
2000