RENATO MENEGHETTI: CORPI ALTRI
a cura di Flaminio Gualdoni

“Per respirazione, o esclamazione perfino, della mente”, dice Emilio Villa, possono nascere le immagini. E’ questa, certo, la schiarita vocazione che Renato Meneghetti coltiva sin dalla metà del decennio Sessanta, il tempo d’avvio di un operare che annovera plurime esperienze, culminanti nella più nota serie delle Radiografie.
Esperienze differenti in termini di tecnica e di allure sperimentale, figlie, più che d’un progetto di totalità da Gesamtkunstwerk, dell’ansia di catturare le sorgenti del senso con qualsiasi strumento il dominio dell’arte, e quello della tecnica, consentano. Curioso certo Meneghetti è, e proliferante, e mobile d’inventiva. Ma non così innamorato degli apparati modali — siano essi il monotipo o il video — da farsene vessillifero fedele, teoricamente pugnace.
Ciò che gli importa, è la consapevolezza di poter disporre delle parole e dei segni che scrivano al meglio le esclamazioni della sua mente, i respiri ora affannosi ora profondi che ne ritmano e dipanano lo scavo del tutto suo personale, fastoso quanto agonico, rovello d’immagine. Parole e segni che egli vuole massimamente precisi; capaci, semmai, di attingere qualcosa che sta un po’ più in là, mai al di qua, delle attese ordinare, sue proprie e di chi guardi.
Ad altri, dunque, dire delle oggettivazioni mondane di quel processo. Ad altri, più, distinguere, catalogare, notomizzare. Altro preme alla lettura, ed è il filo rosso che sempre si dipana nei tempi e nei modi differenti del lavoro di Meneghetti: “il discorso” si sarebbe detto anni fa, al quale egli ha deciso d’ancorare la sua scommessa grande d’arte.
Tale spinta primaria è il ragionare del corpo; meglio di corpo e identità, perdita di corpo e perdita d’identità. Muovendo, agli inizi, da clausole di tipo rappresentativo, Meneghetti s’è subito ritrovato a interrogarle, con la sua tipica vis insieme caustica e laica: ben comprendendo, insieme, che la medietà della nozione di sembiante rispetto alle mozioni forti di corpo e identità era in realtà la panìa in cui si aggrovigliava ogni analisi possibile.
La somiglianza era garantire, con simmetrico specchiamento, la ragione d’esistenza dell’immagine grazie all’individuo, e la ragione d’esistenza dell’individuo grazie all’immagine. Recidere tale nodo convenzionale, retoricamente mortale, era ed è, riteneva Meneghetti, ristabilire la polarità forte che consente di pronunciare il mondo: quella per cui, esemplando, il primitivo — ma anche il greco classico — ritiene il simulacro ladro d’anima del vivente e abito privilegiato dell’identità divina, e la modernità, nell’estremismo feroce di Warhol, ne ha fatto il sostituto in toto del vivente stesso.
Molte e diverse esperienze s’affollavano alla mente: il manichino di de Chirico e il calco di Segal, le figure ghermite con gesto rapace da Bacon e gli scheletri giocosi di Schlemmer, le sindoni delle antropometrie di Klein e le tabelle antropologiche di Costa, i calchi di Nauman e le sculture viventi di Manzoni... molti e diversi, gli opposti delle star di Warhol, del Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini e delle sembianze rese anonime di Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio di Vaccari: accomunati tutti da una identità agente in primo nel corpo, sulla sua qualità sostanziosa e ineludibile, congenita e inseparabile.
Già opere come Dissolversi e Quo vadis, 1964, o Sdoppiamento, 1965, indicano che la via è quella, ribadita da intere serie problematiche come Fagocitazioni e Radiografie: che si vogliono, prioritariamente, ritratti (e si consideri, in parallelo, il riaffiorare periodico insistente della questione dell’autoritratto, che in Meneghetti assume valenze perfettamente congruenti a quanto si va dicendo), ritratti dei quali sia momento primo l’incontrattabile traccia fisica: tanto quanto convenzionale, socialmente burocratico, è l’esercizio di Manzoni intorno alla firma e all’impronta digitale; quanto indiretto è lo “I’m still alive” di Kawara o la lettera di Boetti, altrettanto vero, antropologicamente radicale, è il calco delle Carrozzerie umane e il tracciato osseo delle Radiografie (per le quali non si può non evocare, per labile ma suggestiva affinità, il passo di una lettera di Vostell proprio a Claudio Costa: “Il pesce ha un sistema nervoso più importante del sistema elettronico di un televisore!”, assai più pertinente addirittura, ove si guardi al senso non ai modi, della memoria diretta della radiografia del proprio cranio fatta in altri tempi da Meret Oppenheim, e delle radiografie grottesche di Heartfield); vero per proprietà fisica, per qualità d’esistenza accertata sino alla codificazione convenzionale.
Le Carrozzerie umane, formate in una plastica vischiosa e dal deliberato aspetto di manichini, giocano ancora sulla doublure corpo/immagine che nel nostro secolo ha esplorato figure come il saltimbanco, il manichino, la marionetta, e della quale una certa fotografia in odore di body art non è stata che l’ultima declinazione: penso, soprattutto, a lavori geniali come quelli di Urs LŸthi, antesignano d’un disguise poi ridotto a macchietta.
Le Radiografie, per contro, si appropriano di una nozione d’anatomia non metaforica: sono, mi piace pensare siano, la versione tecnologicamente ultima e determinata delle certe di Zumbo dalle fattezze mortali.
A proposito d’esse, tuttavia, va aggiunta una considerazione tutt’altro che marginale: l’immagine — fotografia più vera del vero perché presenta, non rappresenta, e dice del dentro, della struttura vitale — non è assunta tout court da Meneghetti, con retaggio in sentore di positivismo e scientismo, con mitologia mediale. Essa è, davvero, sindone: anche, d’un lavoro che da essa muove per articolarsi comunque in pittura, una pittura dalle rastremate e padroneggiatissime componenti formali, che accelera la componente fantasmatica, la vocazione della traccia a tegumentarsi d’una pelle (pelle/corpo, beninteso, non pelle/pellicola): dichiarando, nella mediazione, proprio il punto limite della perdita di fisicità in agguato, di un nuovo ulteriore gioco di sembianze che si insinua nella partita del senso.
E’ un gioco di sembianze suggerito, ma subito sottratto, dalle decise immissioni cromatiche che Meneghetti opera. Si tratta non di matiére couleur, bensì di un colore materiato che, nonostante le trattazioni smagrite, che a tratti paion dilavare, assumendosi responsabilità costitutive forti — nei timbri sonanti sino alla distonia, nei viraggi acidi che paion dire addirittura sapore, in una sorta di alluso cannibalismo che non possa esser solo visivo — fondano una concretezza sensoriale nella quale la tattilità non è suggestione, ma sentimento preciso del vedere, ed esperienza che si dilata, chiede di farsi in effetti a sua volta fisica.
Tentazioni ulteriori paiono affacciarsi nelle serie ultime (Meneghetti, proprio per ossessione monotematica, lavora in una sorta di piramidalità seriale, con esplorazioni di singolarità tematiche che valgono quasi come capitoli e paragrafi del corso riflessivo principale, in realtà unico, appunto, mai dismesso), nelle quali, come stabilizzato il procedimento operativo, egli lavora per via di distillazioni ulteriori. Mi par di cogliere, soprattutto in brevi intense sequenze, la ripresa di un altro valore cruciale della cultura visiva nostra, quell’idea di corpo/paesaggio dai non banali esiti e sviluppi possibili. Ebbene, più d’un segno, credo, lascia intendere che questa sia la via che, tra le molte, stia schiudendo un capitolo operativo nuovo.
Tuttavia, Meneghetti è autore di felice asistematicità, fervido perché non preventivabile. Meglio attendere, dunque, e vedere.

Flaminio Gualdoni
2000