PER NECESSITA' DI SENTIMENTO, PER FORZA D'EMOZIONE
a cura di Francesco Revel (alias Matteo Smolizza)

Renato Meneghetti pratica l’arte per necessità di sentimento, per forza d’emozione. Non è sottoposto alla dittatura del mezzo, non privilegia per partito preso la pittura contro la musica o contro l’installazione, ma sceglie di volta in volta lo strumento più efficace per rendere i movimenti, i mutamenti del suo spirito (i quali avvengono diremmo quasi di anno in anno: i suoi cicli sono piuttosto lunghi, come è ricercare, scavare ed esaurire una fonte profonda). I suoi interessi più recenti vanno alle radiografie, una indagine scientifica che recupera per risonanze e trasparenze i luoghi oscuri e invisibili del corpo umano e rovescia le ossa in forme bianchissime, quasi uniche; intorno una gelatina o una nebbia. Meneghetti però non accoglie la lezione del ready-made, dell’oggetto scelto già compiuto, del cedimento dell’artista alle suggestioni che gli si muovono intorno. Egli usa la lastra come un supporto non diverso dalla tela in ultimo, benché infinitamente più ostile e difficile. Un lino ha linee e nodi, ha una trama che è subito coperta e vinta dalla pittura. L’olio, l’acrilico o qualunque altra materia si dà come immagine esclusiva e unica soglia visiva per apprezzare l’abilità tecnica o la profondità d’ingegno dell’autore: il supporto è annullato, o celato come avviene allo scheletro sotto le carni. L’eco del nostro cranio, delle nostre mani, evoca invece un sentimento di sacro, eleva la fantasia all’estremo timore sicché per taluni è addirittura doloroso osservare le proprie radiografie, è insopportabile il pensiero d’un osso scarnificato, d’un bulbo oculare strappato all’orbita. D’un proprio osso, d’un osso vero, d’una tibia che è identica a quella cui ci sorreggiamo ogni istante: le ossa senza la carne sono la figura della morte. Eppure Meneghetti ha deciso, come per moltiplicare la sensazione, di tornare con i colori e la pittura sulle isole bianche delle lastre. Ha toccato l’intangibile presentendo che la materia quando si cela è identica al pensiero. Così la sua pittura benché piuttosto immediata quando passa dalla mente al pennello, è lungamente meditata, lungamente attesa come una ispirazione che proviene senza regola dalle regioni estreme dello Spirito. Sono evocazioni e preghiere al tempo stesso, con rito antico, questi suoi lavori. Sono l’immagine dell’anima degli uomini, del loro ‘genio’, il loro carattere peculiare, quando esso è ormai scomparso e irraggiungibile per noi, oppure quando scalpita e freme reclamando il riconoscimento, che è poi la stessa cosa. Prendiamo qualche titolo: una ortopanoramica enormemente estesa diviene la traccia e lo sviluppo di un paesaggio con emanazioni di forze dal grande mare e raccogliersi di fumi in una ossessione grave, più pesante della natura: è il Ritratto di Friedrich a Dover. Una pressione diversa, poiché totalmente libera da fumi e anzi costruita come un sasso in libera caduta, osservi in Autoritratto al chiaro di luna. Sono i raggi X di un cranio di tre quarti mutati e costretti a nuove forme con il colore e l’alcool, accesi improvvisamente, quasi elettrizzati da due larghe fasce di viola: ma tutto diviene marmo, scultura, il mezzo busto è allora modulato quasi percorso dalle dita prima che dall’occhio perché la tecnica stessa rende nei pieni e nei vuoti, nelle differenti densità del retino di incisione l’eccesso, lo squilibrio di forze d’una scultura barbarica, d’una pietra modellata nella notte dei tempi, la notte e la resurrezione, per i romantici, dell’artista, dell’io creativo. Dietro la luce intride e quasi scompare, fluido di forze e di memorie, nel fondo oscuro: ancora come la risonanza intorno all’uomo si agitano sensazioni, perché Meneghetti sa che il sentimento non si esaurisce nella mente di chi lo prova ma si estende come un’esplosione o un’onda intorno a uno scoglio: è il miracolo di Daumier. Ma in Meneghetti questa estensione, questa impossibilità di esaurimento, questa estrema battaglia contro il limite fisico e spirituale, questa battaglia dove la notte e lo scuro, l’invisibile non sono la perdita dei sensi ma il loro infinito ampliamento, questa battaglia è per la vita. Altre immagini di interiora, di membrane per loro natura leggere e immediatamente disfatte alla morte dell’uomo, divengono estuari di fiumi o cascate, geografia di Gran Canyon disegnati in milioni di anni, mappe celesti senza età, coagulate e costruite con una o due forme su fondi nerissimi, ritratti e celebrazioni dello Spirito immortale. Le forme d’una donna assumono, complice la registrazione della radiografia così simile a un ideogramma, la immobilità d’un paesaggio cinese.

Matteo Smolizza - 1998