Anche oggi, in un momento in cui così tanti artisti rincorrono il fantasma dello “spirito del tempo” sottomettendosi agli imperativi del mercato - si ricordi solo la chiassosa “lotta per i quadri” del 1989 a Colonia - continuano ad esistere alcuni spiriti indipendenti che lavorano al riparo da qualsiasi moda passeggera. Tra tali straordinari artisti annovero Renato Meneghetti, che da oltre trent’anni prende parte ai temi più vitali della nostra epoca e persegue la strada verso una forma di “opera d’arte totale”. Parla molti idiomi, ha sperimentato quasi tutte le modalità d’espressione artistica proposte a partire dagli anni Sessanta, senza privilegiarne una in particolare. Sceglie di volta in volta la strumentazione che gli appare più consona. Meneghetti rappresenta senza dubbio una figura chiave per chi voglia capire in che modo gli ultimi quattro turbolenti decenni si siano riflessi nella sfera dell’arte.
Lucio Fontana riconobbe precocemente il talento a tutto tondo di questo «giovane positivo», come egli stesso lo chiamò: «assimila a fondo le esperienze dei maggiori esponenti dell’arte contemporanea, integrandole nella sua incessante ricerca di una strada». Anche nell’era del digitale non mancano idee creative a chi si è espresso come pittore, scultore, architetto, fotografo, designer, regista, musicista, all’artista che ha operato nel film, nel teatro, nel video.
Fermiamoci a considerare quali impressioni ha potuto assorbire e rielaborare un artista europeo oggi cinquantatreenne.
Negli anni Cinquanta e negli eroici anni Sessanta, definiti anche l’epoca della negazione radicale, la Pop-Art fece scalpore, mentre i confini tra arte e industria d’intrattenimento divenivano fluttuanti e le icone dell’American Way of Life ammaliavano in un’orgia di colori un mondo d’apparenza. Per reazione al Pop la Minimal Art si concentrò sull’efficacia della forma semplice, asettica e ben proporzionata. Negli anni Settanta si è assistito alla mescidazione dei generi artistici, un tempo separati, e all’apertura verso le nuove possibilità offerte dalla fotografia, dal film, dal video e dalla performance. La protesta dadaista, che tra gli anni dieci e venti del Novecento aveva mutato alla radice il concetto dell’arte, non rimase un episodio, ma offrì impulsi fecondi per quella scena artistica che voleva abbattere qualsiasi barriera categoriale. Il mondo fenomenico da allora ci appare più enigmatico, più sfaccettato. L’esegesi dell’opera di Duchamp divenne l’istanza dominante dell’Arte Povera, dell’arte concettuale e della body art, di Fluxus, del Tachismo, dell’happening, della performance, del video e del Surrealismo. Joseph Beuys andava alla ricerca delle fonti sepolte della civiltà occidentale. La natura minacciata ovunque nel mondo fu il tema di riferimento degli artisti che esposero alla Biennale del 1978.
Alla Biennale curata da Jean Clair nel 1995 veniva messa in dubbio l’egemonia dell’arte astratta, che aveva prevalso per quasi cent’anni raggiungendo fino i più reconditi angoli di mondo. Nel frattempo però essa si è fatta vecchia e stanca, spesso affetta dal vizio del déja-vu. Non possiede più nulla di radioso. Al centro dell’esposizione Jean Clair pose l’uomo, oggetto principale dell’arte da più di quattromila anni. Nella “dimostrazione” anatomica degli Uomini di vetro a dimensioni naturali sfumano i confini tra arte e scienza.
Anche nell’opera di Meneghetti, che dipingeva già all’età di dieci anni, ma che poi studiò architettura e design, protagonista è l’uomo. All’artista non interessa l’uomo eroicamente standardizzato, ma ciò che in lui è latente, la ricerca dell’inconscio e delle mistificazioni. Dall’Urlo espressionistico dei monotipi in bianco e nero e dai collage sorti dopo il 1960 emergono inquietudine, paura e morte. Cadeva la neve ad Auschwitz (1965) è certo uno degli esempi più sconvolgenti in cui un artista si sia confrontato con l’atrocità dell’olocausto. Un telo bianco annerito dal fumo, che assorbe la molteplicità dei colori, copre la città dei morti, delimitata da un filo spinato realizzato a collage, al di sopra del quale nel buio si possono scorgere gli evanescenti contorni del fotomontaggio di uno scheletro. Si percepisce una tragicità pervasa da poesia, senza aggressività. Contestazione in musica, un collage lavato creato nel 1966, è specchio della giovane generazione ribelle che sarebbe insorta nel 1968. Un grande occhio guarda in modo ipnotico dal quadro, circondato da un vortice di musicisti impetuosi. Dei posteriori lavori su carta rimane particolarmente impresso nella memoria il foglio Antico dolore (1984), un capolavoro dal punto di vista grafico: una grande testa, bianca come la calce, si staglia su uno scuro sfondo neutro, mostrando cieche cavità al posto di occhi e bocca, strappati di fronte all’orrore. L’uomo ha sempre dovuto sopportare il dolore e la paura della morte. Le Pareti perdute, “concretamente” poetiche, ricordano l’Arte Povera di Alberto Burri, la miseria della condizione esistenziale umana. Lucio Fontana scrisse nel catalogo di una mostra del 1969: «È presente in ogni quadro una sentita spontanea istanza sociale».
Nell’architettura e nel design Meneghetti persegue uno stile severamente ascetico, che lascia intravedere un confronto con la Minimal Art. Il Museo dell’Automobile Luigi Bonfanti (1972) a Romano d’Ezzelino (Vicenza) tradisce lo stretto legame tra architettura e tecnica. Il Progetto in lamiera d’acciaio somiglia ad una carrozzeria futurista che prende forma in una galleria aerodinamica, programmata per l’alta velocità.
È come artista multimediale che Meneghetti giunge al pieno dispiegarsi del suo talento. Ispirato dal video e dai media elettronici, ma anche dalla sociologia, neurologia e psichiatria, con un simile armamentario egli mette in atto una modalità dell’indagine sull’uomo del tutto nuova, non più interessata primariamente all’apparenza esteriore. Era necessario il confronto con i nuovi media digitali che hanno portato alla connessione mediatica di tutto il mondo, dato che essi hanno creato una nuova concezione dell’arte. La forza di persuasione delle “immagini” oggi non muove più dalla pittura, ma dall’immagine in movimento della televisione. Con la simulazione del computer le idee creative possono essere visualizzate. L’esperienza dell’aumento di velocità, di mobilità e di comunicazione un giorno sarà valutata come evento fondamentale nella formazione della coscienza del XX secolo.
Situazioni psichiche “limite” costituiscono sempre più il centro del fare artistico di Meneghetti, come nel fotolibro Insania (1981), nelle deformate Carrozzerie umane realizzate in plastica o nelle Fagocitazioni. A quest’ambito appartengono anche i lavori fotografici che registrano relitti di azioni e situazioni realizzate da Meneghetti utilizzando il proprio corpo, fissandole sul video. L’uomo standardizzato “clonato”, spersonalizzato, paragonabile a un manichino, compare nell’orchestra di Ricominciare dalla musica nel film Divergenze parallele (1981/1982).
Le Fagocitazioni, invenzione molto personale del maestro che risale ancora agli anni Sessanta, se come immagine rimangono entro l’ambito della pittura, rientrano ugualmente nell’ambito della Body Art e della performance. Con le Fagocitatrici Meneghetti visualizza elementi che giacciono al di sotto della superficie. Li visualizza utilizzando una tavolozza opulenta, in un virtuosismo cromatico che ne dimostra la natura di eccellente pittore. Ma egli anche allora era più di un semplice pittore. Un “fago” è qualcuno che ingerisce dentro di sé ogni cosa. La bocca è l’organo più importante. Il significato del verbo «Fagocitare», utilizzato nella biologia delle cellule del sangue, è all’incirca: i grandi inghiottono i piccoli. Per il “Fago” non conta «Avere o Essere» ma solamente «avere o non avere». L’uomo assorbe quotidianamente i più differenti influssi e cade così nella completa dipendenza da una realtà piatta e banale. Ci troviamo di fronte all’uomo spersonalizzato. La genetica e la biotecnologia grazie alla manipolazione dei geni hanno iniziato a costruire un uomo nuovo, l’immagine di un uomo libero da condizionamenti e riferimenti a riflessioni culturali, teologiche e filosofiche millenarie. Le Fagocitatrici visualizzano la crisi esistenziale in cui oggi è incagliata l’umanità. Con la perdita della personalità dell’individuo ci si trova a confrontarsi con la tragedia mortale dell’uomo, percepibile in tutta l’opera di Meneghetti.
Le radiografie di Meneghetti, che a partire dal 1980 coronano la sua opera artistica precedente, entro la storia dell’arte si situano al punto d’arrivo del processo di emancipazione della luce nella pittura europea. Gli impressionisti francesi furono gli importanti precursori di tale evoluzione. Grazie all’assenza dell’estremo opposto, rappresentato dalla scura ombra, alla luce viene sottratto il carattere intimamente bipolare. La luce colorata diffonde un chiarore uniforme, irraggia dall’interno. Delaunay e Klee rappresentano ulteriori tappe lungo questo percorso. Klee ha dipinto nella trasparenza di colore e luce la sovrabbondante pienezza dell’universo. «Il suo genio artistico era come una macchina fotografica, regolata sulle onde infrarosse ed ultraviolette dell’universo» (Werner Schmalenbach). Infine, grazie all’invenzione della fotografia (dal greco phòs + gràphein) si giunse a «scrivere con la luce». Meneghetti possedeva una precoce formazione come fotografo, prima che, nel 1980, forte del proprio bagaglio, ponesse la radiografia come mezzo artistico al servizio della sua arte tesa alla salvezza dell’Uomo. Nella trasparenza della diafana immagine radiografica, che viene sovradipinta a colori e così straniata, o nella radiografia in pittura ad alcool su tela pigmentata o ad acrilico su tela emulsionata, si rispecchia, al di là di ogni consuetudine estetica, la misteriosa interiorità dell’uomo, in cui si celano vita, malattia e morte. Le ossa senza la carne significano la morte. Trasparenza può sempre significare anche trascendenza.
«Ho usato le radiografie non come ready made, né come provocazione, per vedere e far vedere dentro l’uomo, come viene fagocitato, assorbito, disossato, e adesso anche smembrato e clonato dalla società» così l’artista ha interpretato la sua opera, come mezzo e strumento di una liberazione sociale e personale. Di recente è uscita una illuminante monografia pubblicata da Marco Goldin sulle radiografie di Meneghetti dal 1982 al 1997 (Venezia, Marsilio).
I fili tra arte moderna, scienza e High-Tech si stringono sempre di più. Anche la coreografa britannica Rosemary Butcher vuole rendere visibile l’interiorità, ciò che sta all’interno. Perciò si serve delle radiografie come fonte di ispirazione. Nella tradizione teologica e filosofica la coscienza umana viene posta sempre al livello più alto dello spirito, perché l’uomo ha sempre avuto una concezione troppo semplicistica della materia. Ma il neurologo Antonio Damasio, che indaga come l’origine dei sentimenti si situi nel cervello, assegna alla coscienza parti più basse del cervello, che hanno a che fare con il corpo. In questo processo di conoscenza l’arte per lui assolve un compito importante: «Come la scienza, l’arte esprime delle esperienze e in esse riconosce l’universale. Inversamente, la conoscenza scientifica si fa più chiara se il pensiero assume una forma estetica».
La creazione multimediale non ha mai portato Meneghetti - a differenza di quanto è avvenuto per molti artisti della sua generazione - a gettare a mare la tradizione come fastidiosa zavorra. Le sue Rivisitazioni vogliono dire guardare indietro per poter andare avanti. Un Autoritratto da insania in sintetico su carta (1982) si richiama a Marat, il combattente per la libertà assassinato, dipinto da Jacques Louis David poco dopo la morte, nel 1793. Nelle radiografie più tarde, datate dalla fine degli anni ottanta, Meneghetti ha frequentato altre stazioni della storia dell’arte. In un autoritratto diviso in due parti del 1985 dal titolo L’uomo, l’opera (alcool su carta) la metà destra riproduce la parte sinistra del capo, ritratto frontalmente in radiografia. La rigida frontalità ricorda l’autoritratto idealizzato che Albrecht Dürer dipinse nel 1500, a ventott’anni (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek), e che a sua volta fa pensare ai numerosi esemplari del «vero volto di Cristo» (vera icon), circolanti nel tardo Medioevo.
Anche già prima della scoperta dei raggi di Röntgen nel 1895 gli artisti avevano affondato lo sguardo nel corpo umano. Nel 1775 il Granduca Leopoldo I di Toscana fondò il Museo di Storia Naturale della Specola, per il quale fino al 1850 numerosi artisti radicati nella tradizione fiorentina della scultura in cera crearono circa 1400 preparati anatomici in cera, di notevole rilevanza sia dal punto di vista scientifico che artistico, che lasciavano allo sguardo libero accesso su parti del corpo umano aperto. Il surreale accostamento di componente affettiva e di oggettiva analisi anatomica può essere paragonato all’autoritratto di Meneghetti.
Oggi, nell’epoca del digitale, l’artista contemporaneo deve saper padroneggiare diversi strumenti. Il fruitore dell’arte statico e passivo ormai non esiste più. Il principio della pluralità, l’inventiva e fertile mobilità spirituale, fanno di Meneghetti un artista che prevede una partecipazione vitale e attiva del pubblico alle sue creazioni. Sono sicuro che avrà molto da dire.
1998, Erich Steingräber