A CACCIA DI OMBRE
a cura di Italo Zannier

“Era un venerdì sera, più precisamente l’8 novembre; il mite autunno della Bassa Baviera stava per scivolare lentamente nel freddo e nelle brume invernali e il professor Roentgen si trovava in laboratorio, completamene assorbito nel suo lavoro (...) tutto sembrava funzionare regolarmente, quando gli occhi di Roentgen vennero attratti da “qualche cosa” di luminescente ... (1- P. Donizetti, I cacciatori d’ombre, Mondadori, Milano 1963, p. 20); era il 1895 e da allora quel “qualche cosa”, estratto dall’invisibile, è sembrato avverare un improbabile sogno tecnologico, previsto neppure dagli scrittori di fantascienza.

Tiphaigne de la Roche, nel 1760, vi era giunto vicino, profetizzandola fotografia nel suo “Giphantie” (“.. i raggi di luce riflessi dai diversi oggetti, compongono quadri e dipingono questi oggetti su ogni superficie lucida, sulla retina dell’occhio, sull’acqua, sugli specchi. Gli ‘spiriti elementari’ hanno trovato il modo di fissare queste immagini passeggere...” (2- T. de la Roche, Giphantie à Babylone - Paris, 1760, p. 94, ora in I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari 2000, p. 22), ma pensar di “vedere” in immagine l’interno dei corpi, era più azzardato che credere al comparire dei fantasmi, materializzati semmai in soffici ectoplasmi.
Una nuova specie di fantasma si presentò quella sera, nello studio di Roentgen; più vero del vero, non un’allucinazione, ma una realtà sorprendente con la quale si cominciò a fare i conti, anche nell’immaginario, oltre che nella scienza.

Ne risulta una scenografia nascosta, che si proietta quasi miracolosamente su uno schermo, come sullo “specchio” fotosensibile di “Giphantie” - e l’immagine allo stesso modo vi si trattiene indelebile oltre che imperativa -, rivelando però che segni misteriosi, ma ombre comunque del reale; proiezioni di un’iperrealtà talmente magica da stimolare ben presto anche gli artisti, negli anni Venti soprattutto, quando Moholy-Nagy o Ray (ma anche Heartfield, nei fotomontaggi), tentavano di sottrarsi alla banalità “obiettiva” della fotografia, esplorando un mondo sconosciuto, alla ricerca sperimentale di nuove dimensioni della “visione”, un mondo di ombre infinite, che dettavano forme inedite, oltre che strane e persino improbabili, comunque dell’“aldilà”.

Come oggi Renato Meneghetti, che da tempo si è avviato in un viaggio radioscopico, affascinante come quello di Alice, anche se, invece, è così spesso drammatico o perlomeno inquietante; egli profila un itinerario nell’occulto della realtà oggettuale, che si conclude, come dev’essere, nell’orgasmo ansioso dell’opera, nel suo sospiro di luce visibile eleggibile.

La relazione scientifica su quella “nuova specie di raggi” venne subito presentata da Roentgen al Segretario dell’Associazione Fisica e Medica dell’Università di Wurzburg, e tutto il mondo, quello degli scienziati e dei maghi soprattutto, si illuminò di un nuovo potere, impadronendosi del fascino di immagini che a qualcuno sembrarono “effluves humains”, come li definì il Santini in uno specifico saggio dell’inizio XX secolo (3- A. Santini, Photographie des éffluves humains, Mendel, Paris, s.d.), descrivendo ardite teorie sui “fluidi elettrici”, i “corpi astrali”, l’“aura”; quest’ultima, resuscitata in seguito come ricerca paranormale dal Kirnian, che la definì “aura vivente”.

L’Occulto è al vertice di una religione che interroga lo spazio non conosciuto, non “visto” o non intuito (come sa invece l’Artista); nello spazio dell’infinitamente piccolo come dell’infinitamente grande, dove i paesaggi si confondono con il pensiero puro, oltre la vita del quotidiano, che può ad alcuni, come a Meneghetti, sembrare insoddisfacente, comunque parziale.
Ecco l’ansia spiritistica - forse implicita anche nella sperimentazione estetica di Renato Meneghetti -; la curiosità che indusse Crookes e Lombroso e Capuana a frequentare la medium Eusapia Paladino, la sua “ultraterrestrità” parapsicologica; i Raggi di Roentgen offrirono una nuova e grande energia alle teorie spiritistiche, oltre che a certi spettacoli da fiera, dove un poveraccio ignaro si ponevo “en pose” in un baraccone a pagamento, dinanzi a uno schermo radiologico, perché i visitatori potessero ammirare le sue costole, cose se fosse un disossato vivente.

Storie d’altri tempi, ma con la vicenda artistica di Renato Meneghetti hanno in comune oltretutto la curiosità del mistero, e anche l’esigente ricerca degli emblemi fondamentali della vita, proprio là dove questa sembra scomparsa.
“Le fotografie nell’oscurità - osservava Antonio Pappalardo nel 1910, a proposito delle fotografie spiritistiche – sono comprovanti che gli elementi onde sono fatte le forme materiate, escono assolutamente dall’ambito delle cose a noi note (...). Come si può spiegare che si possa ottenere nella più completa oscurità la fotografia di un corpo che ha proiettato sulla lastra dei raggi che per noi sono invisibili?” (4- A. Pappalardo, Spiritismo, Hoepli, Milano 1910, p. 114); eppure Pappalardo sapeva, conosceva la scoperta di Roentgen, ma insisteva nel credere che quelle ombre provenivano dall’“aldilà”, perlomeno quelle ottenute durante qualche truffaldina seduta spiritica in salotto, alle quali voleva ingenuamente “credere”.
“Come si può spiegare - insisteva - se tutto ciò è contro le leggi naturali a noi conosciute; e, tanto vero che si tratta di una luce a noi non percepibile, che sulla lastra dove appare la fotografia del fantasma non vi è traccia degli oggetti circostanti...” (5- ibidem).

Sembrano riflessioni anche d’“estetica” dell’immagine, queste del Pappalardo; riguardano un’immagine “scontornata” appunto “dagli oggetti circostanti”, osservazioni ora implicite nell’opera di Meneghetti, che è cosciente però del suo travagliato percorso tra le forme dell’invisibile, dove “sceglie”, “isola”, “ritaglia”, “assembla” i brani utili alla narrazione, cercando nei frammenti anche un po’ di magia, anzi soprattutto questa, se è lì che sosta in quell’istante il suo concetto di Arte, e spesso anche di Poesia.

Questa tecnica, della Radiografia “manipolata”,così particolarmente e appassionatamente praticata da Renato Meneghetti- una tecnica che mi sembra centrale e qualificante, nell’insieme del suo lavoro di eclettico artista: pittore, sculture, designer..., di frequente “inquinato” dalla fotografia- è spesso infatti Poesia, specialmente dove, come ha scritto Gillo Dorfles, le radiografie costituiscono soprattutto “lo stimolo dal quale l’artista ha saputo e sa recuperare uno spunto immaginifico. La primitiva ‘lastra’ infatti si trasforma, volta in volta, in ritratto, in composizione astratta, ma anche in paesaggio...” (6 - G. Dorfles, Radiografie, x-ray, Meneghetti, Never edizioni, Padova 2000, p.6).

Immagini che rivelano visi di alieni, paesaggi arcani, ricavati a volte, anziché da radiografie del corpo umano, dalle fibre del legno radiografato, o da sezioni di tronco d’albero o d’altro, che qui vivono però un’altra realtà - cadaverica sembra, nel suo underground - ma iconica e basta, aldilà comunque da ogni persecutoria intenzione o funzione scientifica; quell’osso, quella scheggia, quella struttura, quella texture di fibre rese radiologicamente trasparenti, qui si sono trasferite e appaiono trasfigurate nell’empireo delle immagini pure, anche se spesso rivelano, anzi segnalano emblemi e significati della terrestrità; come in un’allucinazione o perlomeno in un sogno, che può essere anche d’incubo, come d’altronde suggeriscono alcuni titoli delle opere di Meneghetti. “Sull’orlo del terzo millennio” è un titolo che li raccoglie tutti e li sintetizza; è quasi apocalittico, come lo sventolio degli stendardi sindonici, o le trasparenze infuocate dei plexiglass radiografici che si incrociano nelle odierne installazioni gigantesche, ma ariose oltre che scenografiche, di Renato Meneghetti.

Nel 1931, Auguste Lumiére, nella prefazione a un saggio di Auguste Leprince su “Les Radiations Humaines”, rifletteva circa la possibilità che “la nostra conoscenza di numerosi fenomeni, non risponda affatto alla realtà e che i princìpi sui quali noi ci basiamo per contestare certe concezioni, siano più o meno profondamente cambiati nell’avvenire...”; (7- A. Lumiére, in A. Leprince, LesRadiations Humaines, Legrand, Paris 1931, p. 11); è accaduto, e sarà sempre così.

Gli artisti hanno collaborato a questa “conoscenza” con la loro specifica immaginazione, senza la quale d’altronde non c’è alcuna creatività, neppure quella scientifica.
In tal senso la fotografia è emblematica dal connubio arte-scienza, anzi è stata la prima disciplina artistica ad essere conseguente a una ricerca tecnologica (oltre che a un sogno ancestrale: fissare l’ombra), realizzata mediante la chimica e la fisica; “arte e scienza” appunto, come definì subito Arago la dagherrotipia, nel presentarla alle Accademie delle Scienze e delle Belle Arti riunite in seduta comune, a Parigi, in quel fatidico 19 agosto 1839, quando la Francia “regalò al mondo” la “meravigliosa invenzione”, con la quale, proprio da quel giorno, “gli artisti avrebbero dovuto fare i conti”.
Così declamò uno dei primi cronisti dell’avvenimento, probabilmente sollecitato dalla frase di Delaroche, che disse: “da oggi la pittura è morta”.
Non morì, la pittura, ma certamente “i conti” con la fotografia iniziò subito a farli; oggi si compiono in un crescendo di “scambi”, di “inquinamenti”, ecc., sotto gli occhi di tutti, anche dei più reazionari, come molti critici italiani, che ancora pensano alla fotografia come una, semmai utile, “serva” della pittura, ma “umile” per giunta, come l’avrebbe voluta Baudelaire nella sua famosa (ma infine ironica) invettiva del 1859.

I sogni di Arago (allora sembrava “impossibile” persino ottenere il ritratto di un uomo, con la dagherrotipia, a causa della lunga “posa” necessaria...), si sono via via avverati: con l’istantaneità, il colore, il cinematografo e tutto il resto che ci coinvolge ormai totalmente, televisione e internet nel frattempo.
Siamo nell’Era dell’Iconismo, lo sappiamo, ma forse non tutti considerano che quest’Epoca è iniziata con l’invenzione di Dagurre-Niépce e di Talbot, in quel fatidico 1839, che peraltro vide anche avviarsi più velocemente l’avventura del viaggio, della velocità, con le prime ferrovie; in Italia, la prima, fu la Napoli-Portici, proprio nel1839, quasi una metafora della modernità.

Dal visibile dagherrotipico (ma era proprio “visibile” o occhio nudo, quel dettaglio rivelato dal dagherrotipo, dal calotipo e poi dal collodio, fissato su lastre e su carte, che veniva “ingrandito” con la protesi ulteriore di una lente?), si è arrivati alla rivelazione grafica dell’invisibile; la prima volta - sorprendente, spettacolare e magica -, con la scoperta di Roentgen che sembrò consentire un’introspezione anche nell’anima dell’uomo.

Ed è ciò che tende in effetti a suggerire Renato Meneghetti, nelle sue elaborazioni pitto-radiografiche, che sublimano, fin quasi a superare il dato oggettivo della lastra iniziale, un’idea di realtà obsoleta, proprio per rivelare volti ed espressioni nascoste, che egli rivela mediante immagini anfibie, di pura creatività, costruite partendo dalla magia scientifica per giungere a quella artistica, l’unica che conta infine, anche per Meneghetti.

Egli sembra intuire che all’interno della radiografia – ma ancora più nell’intimo e nell’“invisibile”, che vive oltre il suo emblematico realismo -, c’è altra energia, la stessa che il Leprince, nel già citato volumetto, chiamava “energie vitale”, e il Santini, più arditamente, “effluves humains” (6- A. Santini, op. cit. nel titolo), cercando persino di ottenere immagini fotografiche mediante la trasmissione del pensiero.
Misteri, che lo scienziato americano Elmer Gates, nel 1906, analizzando alcuni fenomeni stellari, ma di “materia animata” e non immobile - nel suo caso osservati mediante i raggi ultravioletti -, cercava di spiegare, sostenendo quasi paradossalmente che “una sostanza viva proietta la sua ombra, mentre la stessa sostanza, una volta morta non proietta più”.
Concludeva, sostenendo che soltanto “l’anima, sottomessa a quei misteriosi raggi, li ferma al passaggio e produce l’ombra” (8- cfr. S. i. A., “I raggi ultra-violetti”, in “Il Dilettante di fotografia”, Milano, nov. 1906, p. 4318); quanta, troppa fantasia forse quella di Gates, ma sembra quella, persino legittimamente delirante, di un artista.

Renato Meneghetti cerca a sua volta l’“anima”, nelle trasparenze dell’invisibile radiografico, e scopre analogie di segni che sembrano quelli di un sogno, a volte di un incubo, s’è detto; ne ricava Sindoni profane di personaggi sconosciuti o in mutazioni, e autoritratti, da minuscoli dettagli anatomici filtrati dalle radiazioni e poi ingranditi, elaborati e fissati pittoricamente o chimicamente, sopra supporti che concretizzano l’immagine, a suo tempo “latente” all’interno dell’“oggetto”.

Sindoni di “strutture” cosmiche, individuate nel corpo di un uomo, come in quello di un albero, purchessia un invito a concludere l’immagine di un’opera pittorica a pieno diritto, nonostante il “passaggio” per la Fotografia, anzi per la più sofisticata e misteriosa Radiografia, che ha insegnato anche agli artisti a “vedere oltre”, così come ha suggerito il microscopio con la microfotografia o il telescopio con quella astronomica; nel “molto piccolo” e nel “molto grande” appunto, e qui nel “totalmente invisibile”.

Renato Meneghetti sembra a volte vedere queste immagini come fossero “a più strati”, scegliendo soltanto quello che più l’interessa; e anche in questo caso, inconsciamente forse, Meneghetti si pone domande che a suo tempo destarono la curiosità degli scienziati, quando, pochi mesi dopo la scoperta di Roentgen, si interrogavano se “i raggi di Roentgen possono attraversare un numero grandissimo di strati sensibili sovrapposti producendo in tutto il medesimo effetto”, mentre “la luce ordinaria, dopo prodotta l’immagine latente sopra una lastra, non agisce si può dir più sopra un’altra lastra posta a contatto della prima...” (9- cfr. R. Namias, I cardini chimici della moderna fotografia, in “Bollettino mensile del Circolo Fotografico Lombardo”, Milano, dic. 1896, p. 187).

Lo scopo di Meneghetti qui cessa di essere “scientifico”; ciò che conta è il risultato “estetico”, comunque narrativo, che in questo artista tende sempre alla melancolia, se non addirittura a ipotesi d’Apocalisse, cercando ovunque espressioni drammatiche, come di un’umanità dissotterrata. E provengono da lontano, queste immagini, viventi nella stratificazione radiografica, fiorite mediante le alchimie successive dell’artista: con l’alcol, gli inchiostri ad alcol su lastre d’acetato, sulla tela pigmentata, sulla tela specificamente sensibilizzata, ecc., liberando finalmente l’autore dal primo riferimento “realistico” della radiografia, mentre lo avviano alla definitiva trasfigurazione, che è “pittura” e basta!
Sembra inutile, ancora una volta, accennare all’inevitabile “inquinamento o scambio” della fotografia con le altre arti; l’“aberrazione” della fotografia, è infine divenuta, come già ricordava Gio Ponti nel 1932, “la nostra stessa realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio” (10- cfr. G. Ponti, Discorso sull’arte fotografica, in “Domus”, IV, 5, Milano, maggio 1932, ora in I. Zannier, Leggere la fotografia, NIS-Carrocci, Roma 1993, p. 88).

“La magniphique découvert du Professeur Roentgen adejà insipré de nombreux écrivains”, osservava d’altronde uno studioso francese circa un anno dopo la scoperta radiografica; “A une époque ou tout le mond recourt à la chambre noire, ou tant de gens possèdent Kodaks, détectives, photo-jumelles, vérascopes, etc., beaucop auront, sans doute, la curiosité d’applique leuroutillage usuel à la photographie de l’invisible” (11- A. Hébert, La Tecniquedes Rayons X, Bibliothèque de la Revue générale des sciences, Paris 1897, p. III).
Renato Meneghetti vi si è applicato, medianicamente, ma in effetti, come nelle ultime righe di un romanzo di Arbasino, “La bella di Lodi”, “sorridendo al fotografo per la cartolina-ricordo”, e il suo è il ricordo di un’invisibile e tuttora sorprendente aldilà, rintracciato nel suo alchemico e labirintico laboratorio dell’“anima”.

Italo Zannier
2000