Un regista, cinque protagonisti e una possente fonte di ispirazione
a cura di Ilario Luperini

Il Compianto sul Cristo morto di Andrea Mantegna è il motivo conduttore, la sferzata poetica del lavoro. Molto si è detto e scritto su quell’opera: Mantegna ha annullato lo spazio intorno al suo Cristo morto, togliendo tutti i riferimenti divini che l’iconografia religiosa era stata sempre attenta a non omettere, per togliere la sacralità al Cristo e darla al solo corpo. Ma, lo sappiamo bene, tale modalità rappresentativa rivela una conoscenza dell’anatomia umana e della fisiologia del movimento, spavaldamente esibita, che non può non fondarsi su una lunga pratica di dissezione di cadaveri e di disegno dal modello nudo, accompagnata da riflessioni e reciproci rimandi, simile a quella che ci è testimoniata nei disegni di Leonardo da Vinci. Un procedimento che giunge fino a mostrarci fasi di completezza anatomica: scheletri, spellati (figure con la muscolatura in vista, senza pelle), ignudi. E’ un modo di concepire la pittura come costruzione delle figure dal di dentro, per strati successivi dall’interno all’esterno, che è teorizzato ne De Pictura dell’Alberti e presente in moltissimi artisti dell’epoca. Il lavoro creativo di Meneghetti, anche questo è noto, segue un percorso esattamente contrario: sottrazione di strati pittorici, fino ad arrivare alla crudezza dello scheletro: la scoperta delle strutture interne attraverso il procedimento radiografico. Il passaggio dalla forma al pensiero, dall’emozione
alla ragione, dal metafisico al fisico. L’incontro/scontro tra i due contrari provoca la scintilla della follia progettuale di Alberto Bartalini.

Una lucida, abbagliante, superba follia. Ecco che Bartalini chiama a raccolta “quattro artisti contemporanei abili ma ignoranti ai quali non viene rivolta attenzione né dalla critica né dal sistema dell’arte” e chiede loro di lavorare sullo spazio intorno al Cristo morto, di sviluppare in immagini le suggestioni, le emozioni, i pensieri che il quadro suggerisce, di ripensarlo attraverso il loro personale linguaggio di artisti del nostro tempo che si confrontano consapevolmente con un grande maestro della storia dell’are, convinto violentatore della fredda prospettiva albertiana. Quattro interpretazioni di indubbia originalità. Gasperini orienta le sue scelte verso dimensioni drammaticamente oniriche, dilatando a dismisura lo spazio della realtà e dell’immaginazione, uno spazio in cui si riapre il dialogo tra morte e vita, tra bellezza e inferno, tra storia e futuro. Gli accentuati cromatismi di Renato Frosali caratterizzano figurazioni in dissolvimento, molli contorsioni di sapore baconiano tese ad esaltare la perenne relazione tra materia e spirito, tra fisicità del frammento e continuità spazio-temporale. Francesco Federighi esalta, invece, la sacralità dell’uomo nel momento della morte, con un linguaggio di notevole efficacia, caratterizzato dal contrasto luce-buio, non in senso chiaroscurale, ma in forte accentuazione luministica, che prelude a un rinnovato, tragico umanesimo.

Sacralità dei corpi che Stefano Stacchini, con la sua fervida vena di poeta visivo, trasforma in Fantastici sudari, novelle sindoni di profonda umanità. Su tutto ciò interviene con la consueta, esaltante maestria, Renato Meneghetti. Isola dettagli, li trapassa con le sue radiografie che ne esaltano la carnale fisicità. “Meneghetti non ci mostra la carne come Bacon né l’informe come Dubuffet, e nemmeno si tratta del ‘basso materialismo” di Georges Bataille, dove scandalosamente coincidono voluttà e ripugnanza”. Meneghetti scava nella carne e Nella storia e va alla ricerca, nell’una e nell’altra, di ciò che ne costituisce l’ossatura, la parte Indistruttibile; si incunea sotto la pelle e immagina il pulsare di ciò che è sotto e oltre, metafora di ciò che si cela nell’apparenza, alla ricerca della sub stantia, l’essenza, la natura. La radiografia è qualcosa che trapassa la superficie e si incunea nel profondo, rivelando la complessità dei corpi e degli oggetti, una complessità strutturale, fisica. Lo scheletro resiste al tempo; così è l’arte che – se e in quanto tale – resiste alle mode, alle regole del mercato, ai pregiudizi, agli stereotipi, ai lacci del potere. Pulvis es et in pulverem reverteris: nel processo di trasformazione della materia, lo scheletro rappresenta l’ultimo stadio della solidità strutturale, prima del progressivo disfacimento.

Ma l’esistenza, come la storia e l’arte, si svolge per accidenti o per perenne dialettica tra causa ed effetto? Diversità di risposte in differenti sistemi di pensiero. Affrontando il tema dei grandi Maestri, Meneghetti non presume certo di dare una risposta univoca. Tuttavia sceglie una strada: dalle opere di cui si appropria si dipana un comune fil rouge, quello dell’armonia tra tecnica, pensiero e forza espressiva; e di questa continuità egli si fa garante, coniugando tradizione e contemporaneità. In questa occasione, poi, tale continuità diviene immediatamente leggibile: le sue sovrapposizioni radiografiche riguardano nella stessa maniera il quadro di Andrea Mantegna e le opere degli artisti a noi contemporanei: sovrapposizioni che non sopraffanno, ma rafforzano, interpretano, costituiscono un vero e proprio valore aggiunto: il valore dell’eccelsa creatività. Sono opere originali e di grande incisività che, tuttavia, non cancellano i precedenti, anzi ne valorizzano la già rilevante dignità. Ed ecco intervenire la mano, la mente, l’estro, di Alberto Bartalini. Nell’imponente capannone veneziano, la copia del quadro di Mantegna, le variazioni espressive di Gasperini, Frosali, Federighi e Stacchini, le grandi, trasparenti lastre sovrapposte di Meneghetti si compongono in un’opera corale, unitaria, vibrante, destinata a coinvolgere emotivamente e fisicamente il visitatore. I vari elementi interagiscono e producono situazioni in perenne trasformazione, le tele e le piastre si incastrano visivamente le une nelle altre provocando un duraturo dinamismo e creando infinite possibili combinazioni. E in quel vortice il visitatore è trascinato, portato ad immergersi, a condividere quell’atmosfera di infinita profondità e mutabilità, a penetrare, con la guida e lo stimolo di Meneghetti, nel Sottopelle (da qui il titolo): il Sottopelle del Grande maestro, dei quattro artisti misconosciuti, punta di un iceberg infinito, ma anche il Sottopelle del sistema dell’arte che tende sempre più ad escludere, rinunciando alla sua principale missione, cioè quella di includere, di aprire alla comprensione di tutti il misterioso e complesso mondo della creatività artistica; far sì che il fatto ad arte non si degradi nell’artefatto. L’energia dell’arte e la sua funzione catartica tornano ad essere protagoniste di quest’evento la cui novità sta tutta nella sua natura di Show Art, concepita e realizzata a più mani e che si propone come opera aperta, destinata a un continuo mutamento, come in continua trasformazione è il flusso continuo dell’esistenza. Bartalini, sempre più coinvolto in progetti di lunga gittata e di profondo respiro, superato il ruolo del gigione e la fase del divertito istrionismo, in questa regia dà prova di notevole ricchezza intellettuale e raffinata sensibilità estetica, doti che gli provengono da lontano e che lo collocano tra le personalità più nuove, provocatorie e dinamiche del panorama artistico a noi contemporaneo.