CONTROCANTO
a cura di Tommaso Trini

Si è pensato, con Achille, di preparare questo libro ormai nel 1999: l’idea era di paragonare le opere d’arte di un grande pittore, alla più potente macchina dell’immagine del nostro secolo, la pubblicità. E con Renato Meneghetti la cosa sembrava correre molto bene perché di pubblicità si è occupato per mestiere per oltre trent’anni e per altri trent’anni, i pubblicitari hanno guardato alle sue opere rubando qua e là un’idea, una sensazione, un gioco di forme e di colori, come testimoniano le schede in catalogo. Ma la cosa ha pigliato una via del tutto diversa perché a Renato Meneghetti della pubblicità non frega proprio nulla. Le perle sottratte ad un dialogo tenuto in diciassette ore a Bassano nel marzo 2001, compongono un singolare controcanto a tutto quello che questo libro vorrebbe dimostrare.

RENATO MENEGHETTI – TOMMASO TRINI. DA UN DIALOGO

R. M. - … Sì, Fontana fu un luminoso approdo per me a Milano, in quegli ultimi anni Sessanta, quando mia nonna giocava ancora a canasta... una cosa frequente nei bar... come le palette peraltro; le avevamo anche all’oratorio in Bassano. Il calcetto è durato di più...

T.T. – Fontana, dicevi...

R.M. - Ah, Fontana... un porto da cui spingersi in acque profonde… Anche se con risultati che non mi soddisfano ormai... Acque che vorrei non aver percorso. C’è una parte della mia raccolta che ho pensato così spesso di bruciare…

T. T. – Cioè?

R.M – Lo spazio... che ho cercato in giochi molteplici di piani, nella scultura; variando la materia, in pittura... Un fatto di prospettive forzate e aggettanti, come negli encausti, o di densità se vuoi, perché anche i monotipi, su cui ho faticato molto, erano un modo di variare la profondità dell’immagine. E lo stesso avviene nei giochi optical, più che altro un divertimento grafico…

T. T. – Che eguaglia la profondità alla luce…

R.M. – In uno scambio binario in cui è sufficiente graduare da chiaro a scuro, o viceversa perché il punto di fuga non è d’un tono obbligato: penso ad un tunnel, dove il chiaro restituisce l’uscita, ma anche ad una grotta, dove l’ultima lontananza dalla luce, l’estrema profondità è proprio quel nero completamente chiuso alla vista… Due modi di vedere uno stesso cono, scapezzato o meno. Ma allora non mi occupavo di luce e di prospettiva in questo senso. Che comunque non mi è sufficiente. Sai, ora penso che il cono possa rivolgersi al contrario, in una prospettiva divergente... O che la vista percorra le sue pareti, non semplicemente traversando il vuoto, volta ad un solo punto...

T.T. – Infatti, i tuoi sono dipinti sfumatura, più sensazione che idea.

R.M. –Idea? Storia, filosofia, la politica, mi interessano davvero poco; o nulla: costruzioni di parole in cui sono caduto, come tanti dei contestatori. Anche lì senza grandi risultati…

T. T. – Alludi alle fagocitratrici?

R.M. - Un quadro deve convincerti, possederti indifferentemente dal suo significato.

T.T. - Perché se no, non è un quadro, ma un ingombro nello spazio, un fastidio visivo? Nel migliore dei casi, un oggetto indifferente? Come quella scultura che Parmeggiani ricorda piazzata innanzi ad una chiesetta gotica, il bidone della spazzatura… È una grande illusione pensare che le cose abbiano senso di per sé.

R.M. – E’ una illusione più grande pensare che la somma di cose senza senso abbia un qualche senso. Ed ho sempre trovato piuttosto curiosa la fondazione della sociologia – per cui ciò che conta è solo la relazione tra a e b, quando esiste a, esiste b e l’unica cosa che non esiste è quella relazione: un sofisma verbale, per indicare che la nostra percezione della realtà è sinestetica. Un oggetto ha colore, odore, consistenza e via dicendo, perché assolto dai sensi non c’è per noi, il che non vuol dire che non ci sia in assoluto. Un cieco inciampa, anche se non vede l’ostacolo.

T.T. – Però lo sente…

R.M. – Cadrebbe a terra anche se non avesse tatto. Ed un veleno non è meno efficace se non ne riconosci il gusto o l’odore.

T.T. – Ma una completa assenza di sensazioni…

R.M. – Non ci è data. Se non forse, voglio Epicuro, dopo la morte: questo grande infinit du silence, sa immensité noir, dalla quale non voleva essere liberato il Lazzaro di quella penna francese. Ma la pittura è piuttosto una pienezza dionisiaca, la dismisura della sensibilità, un fatto sensuale, quasi sessuale…

T.T. – Un cristallo, un prisma...

R.M. – Materia più della materia, quintessenza. Come è del mare quando senti la profondità e non la superficie crespa, la pittura è la ricerca dell’eguale superiore alle distinzioni; l’estremo oscura il particolare… La pittura è vivere all’estremo, vivere l’estremità: che è poi il modo unico per percorrere questa sfera di raggio infinito che è l’universo di Nicola di Chiusa. Il quale amava molto pane e soppressa…

T.T. – Ottimi, con abbondanza di grappe. Che inducono al sonno ed ai sogni migliori; che vivi di giorno, senza distinzione del lecito e del possibile.

R.M. – Se sei ebbro puoi meditare e provare il volo. La pittura è questa sorta di ebbrezza; e non è meno pericolosa.

T.T. – (S’alza e procede come un funambolo) Si vive sulla corda, col rischio di cadere. Senza rete, se si vive davvero… E’ il gioco di tutti i letterati…

R.M.. – Perché tu stai con le parole… Una fila di lettere, tutto un alfabeto che compone forme irrilevanti. Delle poesie amo soltanto il suono.

T.T. - Come quello che pretende di comprendere testi di lingue che non conosce…

R.M. – Ecco uno che fa critica d’arte, e pensa davvero ci voglia il lumicino per rischiarare un incendio.

T.T. – Tu non hai una buona opinione dei critici; intendo dire della capacità poetica della critica d’arte.

R.M. – Tante volte uno vede ciò che spera. Mi innamorai un tempo di una ragazza, che mi sembrava così rigorosa, così stabile…

T.T. : E dunque?

R.M.- Era lesbica.

T.T. – Come!?

R.M. – Lesbica... Quella che tu chiami rosa avrebbe forse un profumo meno dolce se si chiamasse con un altro nome?

T.T. – Della educazione non si può fare a meno.

R.M. – Sì, quando è una vuota forma, aria che sospinge aria... Talvolta per giustificarsi uno inventa cose molto complicate. Quando è così semplice capire che v’è un ordine. E se non lo intendi… Ricordi la pubblicità di quel bambino idiota che infila a forza un parallelepipedo nel traforo della sfera?

T.T. – Forse hai perso due o tre secoli di pensiero.

R.M. – Non mi sono mai posto il problema di essere moderno.

T.T. – Eppure tanta parte delle tue cose sono critica sociale... Sei una continua contraddizione... La adesione al ’68, tu ai moti della università di Padova, ed anche la corrispondenza di senso e di lettere con Guiducci e Nonis ed altri di questi che stanno al margine della accademia, della ufficialità, della Chiesa…

R.M. – Ho passato molto tempo a ricamare su “danaro sterco del demonio”. Ed erano anni nei quali guadagnavo molto. Da un po’ mi occupo d’altro e non soffro più di quegli odori. Non sono fuggito per motivi politici, ma estetici.

T.T. – Già, non t’occupi di politica mi sembra. Salvo una militanza molto comoda in Forza Italia, l’adesione alla campagna di Sgarbi per le elezioni ultime, mi pare.

R.M. – Ti pare male. Sono amico di molti di cui non conosco le opinioni politiche. E resto amico di chi ha opinioni che non condivido. Sai, considero molto poco tutte queste cose. Ed ho orrore di chi distingue l’umanità in base alle divise... le divise, forse una parola troppo seria per le distinzioni d’oggi.

T.T. – Eppure ideologie è solo un brutto modo di scrivere idee, quando hanno una qualche coerenza tra loro. Forse oggi non ci sono, ma non puoi dirmi che non ti interessano le idee delle persone che frequenti, con cui parli e, persino, con cui pubblichi libri…

R.M. – Vado dal panettiere per comprare il pane; dal barbiere per fare il taglio. E non mi interessa altro che il loro mestiere. Non chiedo tessere o trattati di filosofia. L’amicizia, poi, è un patto di fiducia.

T.T – Una maledizione della filosofia nelle relazioni umane.

R.M. – Un elogio del buon senso. Che avrebbe molto senso anche nel giudizio sull’arte.

T.T. – Contemplazione. Che per te sarà assenza di giudizio, suppongo.

R.M. – Alcuni sottomettono l’opera d’arte alle nostre conoscenze, al nostro gusto, inteso come una categoria storica. Innanzi al capolavoro, invece, è l’immagine ad imporsi alla mente: l’osservatore, che abbia gli occhi per vedere, o l’udito per sentire, è semplicemente dominato e restituito ad una vita superiore dall’immagine che gli sta innanzi. In sostanza, godere d’una opera d’arte è come consumare un buon banchetto, godendo dei cibi senza la preoccupazione di chi li abbia cucinati o degli ingredienti.

T.T. –Sei proprio incorreggibile! Così dell’opera d’arte non si può dire nulla.

R.M. – Infatti ciò che può esser mostrato, non può esser detto.

T.T. – Il dominio dell’immagine e quello della parola. Avranno pure un campo comune?

R.M. – Quando sei triste tendi ad usare certe forme e colori. Ed un pittore nato in una civiltà che predilige il rosso difficilmente dipingerà solo con il blu. Ma ciò che interessa non è il tuo piccolo mondo - la tua civiltà, il tuo umore: è ciò per cui guardo il tuo quadro, quando sei morto da mille anni e nulla resta di quella miseria. Questo respiro non soffocato dal tempo è il nostro “campo comune”.

T.T. – D’altra parte si può osservare un oggetto d’arte isolandone le forme, indagando i rapporti tra i colori, cercando quella “sezione aurea” che muove lo spettatore…

R.M. – L’opera non è la somma delle parti. È una unità inscindibile, separata dal mondo che le si muove intorno, indifferente allo spettatore. Fare la ricetta d’un quadro – tanto di pepe, una presa di sale, un filo d’olio, due finocchi saltati – vuol dire semplicemente non avere un anima tale da accoglierne l’immagine intera.

T.T. – Ragioni per paradossi, a volte divertenti, per lo più inutili. Perché se osservi l’ultimo Tiziano e non ti accorgi che la luce brucia l’immagine e che il colore è quasi consumato, e ciò avviene per un procedimento tecnico adottato dal pittore, semplicemente vuol dire che non osservi.

R.M. - No, vuol dire che non ragiono innanzi all’opera d’arte. Perché tra l’altro non mi interessa quel piccolo espediente – il mezzo attraverso il quale lo spirito di Tiziano o altro Spirito si è fatto forma; ma appunto quello spirito e quella forma. E non hanno senso per me le teorie generali sui colori, l’opposizione tra il grigio e la poikilia…

T.T. – Che peraltro presero molto anche Bernardo di Clervaux, come te una strana commistione di passatismo, purismo, intolleranza ed iperattivismo.

R.M. – Tuonò contro i rosoni perché la luce naturale conteneva tutti i colori. E poi l’hanno fatto santo.

T.T. – Credo francamente tu non vi possa aspirare!

R.M. – Ho conosciuto piuttosto bene la dimensione del peccato. Non vi sono passato immune. E tutte quelle cose fatte e dette contro i soldi come carburante d’un meccanismo sociale che divora l’uomo, le ho intese partecipandovi profondamente, coscientemente. Come un alcolizzato può parlare del suo vizio, insomma.

T.T. – Erano i tempi della tua agenzia pubblicitaria. Condotta con risultati brillanti, mi sembra.

R.M. – Sì. Vent’anni in cui produssi una doppia vita, di giorno l’ossequio, dunque il disprezzo dell’immagine, dell’ingenio mercificato: dipingevo infatti di notte, o nelle pause. Ma non c’era poi quella gran distanza. Sai, è come quello che odia ed ama una stessa ragazza.

T.T. – Ma occuparsi di pubblicità non è prostituirsi. I committenti ci sono sempre stati e spesso hanno dettato un tema - che so, un ritratto, la vita d’un santo, una rappresentazione teologica. E non è minore la libertà di invenzione, se l’obiettivo è prestabilito: semplicemente è un po’ più difficile ottenere un risultato originale.

R.M. – Un buon pubblicitario deve essere versatile ed efficace, per trattare materiali diversi, legati a “tradizioni” di immagine diverse, destinati a pubblici diversi. Si tratta di dire in pochi secondi, in sostanza, compralo perché è il prodotto che ti serviva; ed è qui, a portata di mano. Un pittore cerca la profondità, ha bisogno del tempo della contemplazione, porta l’attenzione su ciò che vorresti dimenticare e ti restituisce l’immagine di ciò che non è qui, né a portata di mano: si occupa del dolore, della morte, dell’eterno. L’orizzonte su cui proietta la propria esistenza è la linea del tramonto; la materia prende consistenza d’ombra, tutto è pronto a venir meno in ogni istante, perché venir meno è davvero l’intima natura delle cose: non già ché siano destinate alla distruzione, ma perché la distruzione agisce in esse costantemente, e per ognuno di noi, per ogni oggetto, per il creato nella sua estrema estensione, la vita è una candela che dà luce mentre si consuma e muore.

T.T. – Tu hai fatto anche cinema e non sei dunque contrario all’immagine in movimento, cioè ammetti una “contemplazione veloce”. Ed è innegabile che la qualità di comunicazione, la profondità di molte campagne pubblicitarie sia superiore a quella di tanto grande cinema: quei venti secondi davvero obbligano ad una estrema concentrazione dei mezzi tecnici e poetici. E’ eccezionale, per esempio, tra quelle ora in onda, la pubblicità di certi jeans: due ragazzi che corrono sfondando in successione decine di muri e traversano a volo una foresta per salire inesausti altissimi abeti ed infine guadagnare il cielo, con un movimento che restituisce quasi i catasterismi antichi, la chioma di Berenice o che so, e che in fondo è anche una immagine della vita eroica e della aspirazione alla libertà, a vincere tutte le costrizioni, dai vincoli sociali alla stessa forza di gravità.

R.M. – Negli ultimi anni, sempre più la pubblicità ha cercato di raccontare – come in un cortometraggio – situazioni estreme, con il risultato che i più non si ricordano il nome del prodotto pubblicizzato, proprio come è capitato a te, ora, con i pantaloni. Questo è appunto un esempio di come la restituzione di un messaggio commerciale sia incompatibile con l’opera d’arte, che – quando c’è – coincide con la parte pura del filmato o con il gioco grafico del manifesto. Molte campagne, offrendo l’immagine del prodotto soltanto alla fine quasi a presentarla in climax, tendono invece ad estrometterla. E comunque se i giovani si fermassero prima della salita al cielo, il filmato sarebbe assai migliore. Un sentimento del genere, la voglia di essere liberi ed al tempo stesso in comunione col mondo, cercammo di esprimerlo con l’abbraccio di una coppia sotto la pioggia per l’amaro Jörge... che nel sapore richiamava la vegetazione e la terra umida... quel senso di calore della pelle contro la pelle...

T.T. – Naturalmente la ricordo. Ed appartiene a quel periodo aureo della pubblicità – rappresentato anche, per esempio, in Carosello - in cui il prodotto era protagonista del messaggio, senza con ciò degradarlo.

R.M. – In Carosello lo spot durava un minuto, di cui tre quarti privi di allusione al prodotto, e solo la coda con una aperta pubblicità: una vecchia regola che, come vedi, è dura a morire. E comunque non so se apprezzeremmo ancora quelle pubblicità oggi, liberati da una certa malinconia per gli anni della giovinezza. Per un artista erano un divertimento, non un obiettivo: come per un disegnatore, far fumetti.

T.T. – E così la Philip Morris, Romeo Gigli, la Levis, i Bluvertigo, Richmond e quegli altri rappresentati in questo libro, da te ispirati…

R.M. - “Immagini di molti dei e dee, qui innanzi a me morti”. Comunque, fuor di poesia, mi interessa poco o nulla il rapporto tra arte e pubblicità. Me ne sono occupato già a noia in aura viandante. Ed infine secondo me la pubblicità è la pura comunicazione del messaggio commerciale, che cerca di presentarsi al meglio facendo leva sull’arte: due campi talvolta fisicamente contigui ma mai parenti, privi di qualsiasi comunicazione tra loro che vada oltre l’uso d’un comune espediente o mezzo tecnico: la voce fuori campo, la cinepresa, la squadra. In America negli Anni Cinquanta e Sessanta c’erano alcune canzonette pubblicitarie molto famose, fischiettate ovunque. Ma anche in questo caso di apparente coincidenza tra l’opera ed il messaggio pubblicitario, dove opera vi sia stata, questa era il ritmo, il suono, assolutamente sciolto dalla immagine delle scarpe da tennis o della merenda di turno.

T.T. – Intendevo dire che molto spesso la pubblicità è ispirata dall’arte, se vuoi “pura”, è c’è tra esse come un rapporto di filiazione. Se così non fosse, cadrebbe il senso di questo studio.

R.M. – Ci sono opere d’arte straordinariamente comunicative: penso per esempio all’”Origine del mondo” di Courbet, queste due cosce di donna spalancate, tutto in vista, uno scandalo enorme al tempo… In questo senso tu puoi credere che l’arte, con il suo statuto di extraterritorialità - per quella stessa possibilità di dire concessa ai folli nelle civiltà arcaiche, divinamente ispirati e dunque superiori alla morale comune - apra nuove vie che altri percorreranno. Altre volte, in modo più prosaico, c’è una coincidenza di interessi: Virginie riprese nel ’76 alcuni miei dipinti del ’68. Per come la vedo io, l’artista è semplicemente più sensibile ed avverte prima quello che di lì a poco apparterrà a tutti; o che già a tutti appartiene senza che se ne avvedano. Per esempio, è palese che l’immagine radiografica sia di vasta parte dell’umanità da almeno un cinquantennio, da quando cioè è divenuta una prassi medica corrente, eppure nessuno si era accorto di ciò che stava da così tanto sotto gli occhi di tutti. Posso portarti un altro esempio, il cubismo. Nella società meccanica, nella società dell’ingranaggio in movimento, il sovrapporsi di immagini squadrate e spezzate era veramente la cosa più ovvia. Eppure gli artisti se ne accorsero molto prima dei pubblicitari: questi soltanto spiegarono alla massa, che viveva quel tempo senza accorgersene. Ecco, l’artista insomma è un tipo sensibile ed in questo senso sembra persino un vate, anticipa mode e costumi, gusti e tendenze: che sono tutte cose inconsistenti. Ma se hai di fronte Virgilio o Giotto, o Picasso, la questione è tutt’altra e tu vedi l’aceto, il fondo della bottiglia e la madre che ti dà l’aceto, cioè quelle solite questioni che ti rendono amaro il mattino e che lo rendono amaro da svariati milioni di anni ad ogni uomo che sia nato sotto il sole.

T.T. - L’arte ha così anche un senso liberatorio e l’artista, se tu vuoi – dico una cosa di cui mi pentirò – ti fa un po’ da psicologo raccontandoti ciò che temi.

R.M. – Non so. Penso che l’artista si occupi poco del pubblico ed infine non sia neppure il pieno padrone dell’immagine che prende forma sotto le sue mani.

T.T. – “2001 Odissea nello spazio” ha anticipato davvero molto che ora ci appartiene. Forse è ancora avanti sul nostro tempo… Mi pare un singolare esempio di quello che dicevi.

R.M. –Verne aveva detto così tanto su di noi in quel suo libretto incompiuto, 1864 mi pare, “Parigi nel XX secolo”, che immaginava la capitale francese nel 1960. Fu un colpo quando Hachette la trovò e diede alle stampe nel ’94. Comunque, quando appare la scrittura, nelle sue varie forme – il romanzo, come la scenografia – la cosa è subito diversa. La fantasia si estende sino all’estremo desiderio dell’uomo, per esempio di giungere alla luna, superando il difetto tecnico con una immagine semplicemente ardita, che resta un gioco di parole e può essere un cannone oppure il cavallo di Astolfo a portarti oltre i cieli terrestri. In pittura è un’altra cosa, ed un quadro con una soluzione del genere sarebbe semplicemente surreale o didascalico. La pittura pretende un diverso grado di verità e si occupa di norma di oggetti molto meno limitati e concreti: ciò quando anche celebri la fondazione di una città o le glorie di un borghese o d’un sovrano. La pittura – ti dirò – è questo spazio del mito, che appartiene anche alla poesia arcaica: ecco perché senti l’Iliade molto più vera dell’Ariosto. Ed il mito è quella zona d’ombra tra la luce e l’oscurità, un’ombra indistinta, indefinita, la cui natura ultima ti sfugge e partecipa di due mondi opposti.

T.T. – Così le dai ruolo di cornacchia, annunciatrice di verità segrete con quella sua voce di caverna. Oppure di civetta, animale lunare pur esso così vicino a quel tuo discorso sul rappresentare distintamente ciò che altri hanno vissuto ma non inteso. Mi sa che è un ragionamento, il tuo, largamente rubato alla filosofia.

R.M. – La pittura come una cornacchia? E’ la prima volta che sento un paragone del genere: la immaginavo piuttosto ancilla bona o, che so, sirena ingannatrice. Ma anche la cornacchia è uno spirito guida ed io mi occupo ampiamente di spiriti. Forse per questo ho indagato le radiografie. Appena scoperte, furono prese per fotografia dell’anima o di veri e propri fantasmi.

T.T. –Da alcune tue installazioni e da Insania soprattutto trasparivi come animatore di culti della notte. Anche se, per dir il vero, in un modo un po’ teatrale, un po’ gonfio… di latta, se consenti.

R.M. Tanto della nostra vita è prepararsi a qualche cosa di culminante. Per questo, forse, ogni artista aspira a vivere solo delle proprie opere: poco se tu guardi nella estensione, nella superficie, tutto se scorgi l’altezza, la profondità: che i latini indicavano con un solo termine!

T.T. – Altitudo.

R.M. – Altitudo. Il che centra in effetti poco con la mia collezione di maschere africane.

T.T. – Che ha però almeno una decina di pezzi notevoli. Anche se non vedo il nesso tra questa tua mania di collezionare maschere, o tappeti, e la pittura.

R.M. – Forse non c’è. E comunque il tappeto e la maschera sono due oggetti rituali, legati alla cerimonia ed alla preghiera, capaci entrambi di traslarti, il primo entro uno spazio sacro, il secondo, mutando addirittura i tuoi connotati, in un altro corpo. Naturalmente la pienezza di questi due strumenti sono il tappeto volante – una metafora della separazione tra carne e spirito, o se vuoi del pensiero alato volto al cielo - e la maschera dietro alla quale non si cela nessun volto: essa stessa vuole e può, coincide con una rappresentazione così forte da rendere completamente inutile, insussistente, la realtà. Sono entrambe aspirazioni dell’artista.

T.T.: - C’è in te costante la volontà di spiegarti e di negarti dietro metafore, come se ad un certo momento ti riconoscessi insufficiente. Come se al tempo stesso ricercassi e fuggissi un appoggio. E’ una specie di altalena tra istinto di conservazione ed una costante insicurezza. Ne parlavo anche con ABO. Sai, questa tua necessità della abbondanza, di approvazione la più vasta, di mostre, di cataloghi, di testi, svela una tua sfiducia di fondo nella tua opera…

R.M. – Questa è una storia vecchia. Di carattere, tendo a strafare. Per tanto tempo ho combattuto solo e persino mia madre mi ha negato la pittura, sottraendomi i colori. Dovevo improvvisare le tele con le cassette della frutta ed i panni; e procurarmi i colori mischiando l’olio da cucina con la terra e le erbe della campagna prossima a casa. Poi, il lavoro mi ha strappato per decenni alla pratica del cavalletto e non ti nascondo che, ora che ho abbandonato tutto per la mia famiglia e per dipingere, sento il peso e la difficoltà di questa scelta e mi si fa spesso presente una frase di mamma: “Renato, gli artisti muoiono tutti di fame”.

T.T. – Di sicuro non è la tua condizione.

R.M. – È per dire che ancora oggi non so se abbia preso la via giusta ed ho bisogno lungo il cammino di non essere solo, per non voltarmi indietro, per non cadere nel sospetto che tutto questo marchingegno sia un inganno che ho messo in piedi per me stesso, per raccontarmi che non sarò sepolto per intero e così presto, ma in qualche modo ciò che più conta in me estenderà la sua vita ancora per cinquecento o mille anni: più o meno la vita d’un quadro. Perché…

T.T. - … ottimista! I tuoi quadri, per dir poco, danno problemi di conservazione …

R.M. – in fondo non so giudicare da solo i miei lavori, come un padre i figli, col rischio di preferire il peggiore perché si lega ad un fatto della vita o perché mi ha fatto penare di più ed è come se sentissi che vi è di più dentro. Dicevi?

T.T. – Tra l’altro, che i tuoi dipinti temono la luce… e chi non li cura a dovere rischia di vedere l’immagine tutta volta in grigio, dopo qualche anno, come se il colore fosse evaporato o consumato…

R.M. – Sì. Dipende dalla composizione alcolica dei colori. Da un po’ abbiamo studiato un formula chimica che supera il problema. E comunque basta usare l’accortezza d’un buon collezionista di disegni, porre la tela distante da un fonte luminosa diretta, quando non si adotti un vetro schermato. Certo, qualche grana resta per i musei – che sottopongono i dipinti a luce continua per anni – e durante le esposizioni, che richiedono una illuminazione molto forte, pur se per un breve periodo. Anche in questo caso, però, basta un po’ di accortezza. Ed infine mi pare molto poetico che queste tele, destinate a cercare la luce la temano, e che il dipinto esemplifichi così bene il destino nostro comune, tornare cenere.

T.T. - E’ il serpente, che si chiude in un circolo e diviene un segno di vita e di morte al tempo stesso. Tu giochi su questa ambivalenza. Mi riferisco soprattutto alle tue installazioni con le testine dei bambini, oppure al lavoro che stai preparando in Afghanistan. A proposito, a che punto è?

R.M. – Abbiamo individuato la zona, nei dintorni di Jalalabad. Non so come faranno a trovare Bin Laden, perché il paese è tutto una groviera e la frontiera con Pachistan in effetti non esiste. Comunque abbiamo una scelta tra quattro, cinque bunker, uno dei quali – colmo di gente festante quando furono distrutte le Twin Towers - sarà riempito di monete Bin, Bush, Giuda.

T.T. - Bin Bush?

R.M. – Quando tu vai la e vedi tribù di miliziani pronte a farsi la pelle, responsabili di 50.000 morti civili nella sola Kabul in cinque anni e paragoni alle 50 esecuzioni talebane, pur atroci, ti viene il dubbio sulla nostra grande generosità, sulla nostra nuova guerra di vendetta e di umanità. Francamente, se non vi fosse un presidente come Karzai, sarebbe già l’inferno. Perché ti sarai accorto che non esiste il Pachistan e non esiste l’Afghanistan, ma solo un grande stato Pashtoon, alla frontiera tra i due, del quale Peshawar è capitale e Karzai garante.

T.T. – Vedi quanto tu ami l’equivoco e la sfumatura e ci giochi? Anche qui, con una operazione che è a mezzo tra la denuncia sociale e la pubblicità,senza far intendere con chi stai. Bisogna che tu non cada nel tuo terzo figuro, Giuda, perché qualcuno poi ti dica “Con un bacio mi tradisci?”

R.M. – Cioè?

T.T. – Cioè dopo aver rifiuto una soluzione artistica per la pubblicità non puoi rifilarmi una soluzione pubblicitaria per l’arte. Speculando poi un richiamo mondiale sulla pelle di gente che è morta, al di qua e al di là della nostra isoletta felice, l’Europa.

R.M. – Certo, per me i morti di New York non valgono più di quelli afgani, anche se peggiore è stata la loro fine, chiusi come in una scatola di sardine, nella carlinga di un aeroplano o in un palazzo lì per crollare, avvolto dalle fiamme, senza aver cercato una difesa pur impossibile, senza l’abbaglio dell’onore o della fede. Semplicemente foglie strappate via.

T.T. – Non ti chiedo una giustificazione politica, un esercizio di compassione…

R.M. – Scusami inseguivo il ricordo degli ultimi messaggi … mi è capitato di leggerli su un quotidiano… La mia opera, riempire una bocca del terrore di danaro posticcio, rappresenta il guadagno che i terroristi – in termini di credito nel mondo arabo – e l’economia americana – in termini di ripresa, specialmente nel settore delle armi – hanno avuto. E comunque è abbastanza ridicolo non chiedersi che cosa sarebbe dovuto capitare nelle cinque ore in cui, l’11 settembre, il Pentagono, è stato isolato.

T.T. – E cosa?

R.M. – Non lo so. Appunto me lo chiedo.

T.T. – Comunque questo non c’entra davvero niente con il nostro argomento.

R.M. – Che poi sarebbe?

T.T. – La sincerità nell’opera d’arte.

R.M. – Cioè la legittimità della provocazione? La provocazione per statuto è ricercata, costruita, ma non è insincera quando tocca punti scoperti, ferite aperte, nervi sensibili. Così, sincero non vuol dire ingenuo. Anche se solo un’opera d’arte “ingenua”, nata per così dire pura, infinitamente distante dal mondo e persino dal suo creatore, può aspirare alla statura di capolavoro. Ha un respiro che passa di molto tutti i nostri piccoli tentativi di prendere aria.

T.T.: D’altra parte, caro mio, non vorrai negare che Guernica sia un capolavoro; e non potrai dirmi che non abbia a che fare col suo tempo, visto che è l’immagine più forte e straziante della II Guerra. Ti posso dire lo stesso, naturalmente, per i contadini di Grant Wood, oppure per David e, venendo a noi, Cattelan.

R.M. Tu vedi che un dipinto non è una cosa distinta dalla tela, dal colore, dal telaio di cui è fatto. Diciamo che è questa tela, questo colore e questo telaio messi in una certa maniera. Questa certa maniera in cui la materia è disposta formando un determinato oggetto Aristotele chiamava sinolo, ossia unione inscindibile di materia e forma. E dopo che tu abbia ammirato questa mia spiegazione così dotta, ti dirò che anche l’opera d’arte si compone del concreto della storia, proprio come della materia, ed in una maniera determinata, che è la dismisura, lo sguardo volto all’eterno: l’opera d’arte è l’infinito reso concreto o se tu vuoi il concreto proiettato nell’infinito. Quando tu guardi il “Battesimo di Cristo” di Leonardo, quella immagine presa tutta insieme, non più volti, piedi, acque, sfondi, vesti, neppure più il battesimo di Cristo: la meraviglia ti prende, semplicemente non sei più nulla innanzi a lei. Vivi del suo riflesso. A ché conoscere l’autore, il tempo, la tecnica? Forse che la testa di scriba rinvenuta a Giza, quel calcare che si data intorno al 2540, perde di rilievo perché ci è ignoto l’autore? Che mi dici di quella meravigliosa testa bronzea d’un sovrano coronato – morirei per averla nella mia raccolta – rinvenuta a Ife, in Nigeria? Ti chiederai come tu abbia potuto vivere senza averla vista. E come tu possa senza contemplarla infinitamente. Eppure, aveva ragione Borges, la bellezza non è rara. Ciò per dirti che è altro dalla storia, altro dal miserabile concreto a prenderci innanzi al capolavoro, e che proprio quando tentiamo di avvicinarlo con ricerche di pignoleria stiamo volgendoci altrove.

T.T. - Così hai tirato i piedi, per la seconda volta, a chiunque si metta a fare filologia, tentando di comprendere le cose con qualche impegno.

R.M. – Appunto, per comprendere l’arte non serve alcun impegno. Perché l’opera si concede, come la grazia, misteriosamente, e nessuno sforzo consente di guadagnarne la contemplazione: non si può diventare sensibili.

T.T. – Allora tutta la cultura, tutta la conoscenza, sono completamente inutili.

R.M. – Se intendi la conoscenza come un vocabolario che ti si squaderna davanti, offrendo modelli e tracce per i tuoi pensieri, bene, ha il suo senso. Ma pensa quanto può leggere d’un libro un cieco o ascoltare d’una orazione un sordo. Questo nulla è lo stesso vuoto che lascia un’opera d’arte in un uomo insensibile. E così capisci che il mondo tutto intero, le stagioni, le bestie, il mare, pigliano forma di poesia in un animo incline, e questi non ha bisogno di consultare il Thesaurus Linguae Latinae, non deve rivoltare tutta l’Eneide per formare tre versi riusciti. Infine Omero non ebbe nessun bisogno di Virgilio e Saffo avrebbe tratto un meraviglioso epitalamio dall’osservare un giglio di porpora, pur senza tutta l’epoca arcaica. Così tu hai che la cultura è tutt’al più lo sgabuzzino di quella palestra universale in cui si esercita la sensibilità.

T.T. – È così difficile costruire una storia dell’arte se sei consapevole del fatto che ogni opera d’arte nasce così lontana dalla storia. Per un moto intimo, segreto, impenetrabile.

R.M. – Dietro ad un quadro c’è sempre quella piccola sensazione, il riflesso d’un dolore per lo più. D’una speranza, talvolta. Se mai speranza può precedere il dolore.

T.T. – Certo si spera quando c’è il motivo per farlo. E non c’è mai un lieto motivo di sperare. Persino l’Avvento è atteso come la fine del dolore, se non della storia. L’intero svolgersi dell’universo è come segnato da questo dolore universale, anche quando si speri, al termine di esso una soluzione.

R.M. – Per questo la Speranza è la stella polare dell’umanità. La insegui per giungere ad un porto, quando incappare in uno scoglio sarebbe assai meglio.

T.T. – Come è cambiato il tono della tua voce. Mi sembri molto giù...

R.M. – Perché sbandiero la verità di Sileno, che è preferibile per l’uomo non esser mai nato? È qualche cosa che tutti sanno intuitivamente eppure nessuno prende la risoluzione. Michaelstadter tagliò corto, ma fu forse per un male d’amore. Dietro a tutte le belle parole spese per in “Persuasione e Rettorica”, non penso affatto abbia deciso scientemente. Ho un amico a Milano che ha scelto di non avere figli per rompere il cerchio del dolore. Un modo diverso è cercare la felicità sino alla disperazione.

T.T. – Poi ci sarebbe di vivere una vita serena...

R.M. – Ma questa è una cosa da saggi, una cosa completamente fuori dalle mie possibilità! (con voce squillante).

T.T. – C’è una cosa veramente curiosa... Ed è che possiamo intendere i sentimenti degli altri, ma non avvertirli. I sentimenti non si propagano ed il volto è come la superficie d’un mare molto profondo: non giungerai mai alle acque scure. Questa forse è la solitudine.

R.M. – Ed è per questo che, quando pensi al mare, è molto meglio se ti viene in mente Rimini.

T.T. – Mi dici che è meglio essere un’anima meschina...

R.M. – Che è meglio non capire, caro mio. Non capire...

T.T. - Neppure il motivo per cui uno si ubriaca... Quando ciò che è strano davvero è che ci siano in abbondanza ragioni per tirare avanti, come l’amore, il desiderio di conoscere...

R.M. - Senza fine… (intonando la canzone).

T.T. – È poi questa melanconia di fondo del tuo carattere, qualcosa che Achille ha inteso molto bene. Sai, leggendo il suo saggio mi era parso eccedere un po’; ma ora...

-

vibra un celullare

-

T.T. – Scusami, lo spengo subito.

R.M. – Ha una bella linea.

T.T. – A proposito, non ti occupi più di design?

R.M. – No. E penso che anche le mie sculture siano singolarmente lontane da quelle cose. Innanzitutto, non servono a niente.

T.T. – Anche se le monete della Pietra del Vituperio hanno molto di design.

R.M. – Infatti la considero più che altro un gioco. Le mie sculture sono vento, ombra, sasso... Ed infine il mare, la nebbia, in questa selva di bandiere che si muovono confuse, rosse di tramonto. Anche le palme... Tu sai che è così forte guardando alcune di esse l’impressione del fumo.

T.T. – Così ti è venuto in mente dei campi di concentramento...

R.M. – Forse l’ho sempre pensato. Era una immagine fortissima in me. Come quella degli occhi, così spesso parto da un occhio. E poi ho negli occhi le rose di Jalalabad... Tra monti di 4000 metri... Forse un’opera d’arte nasce così, da un ricordo improvviso e, non sai perché, così importante.

T.T. – La realtà è davvero questo specchio di Alice, nel quale tutte le cose procedono al contrario... ma funzionano poi perfettamente...

R.M. - Cyrano de Bergerac, la follia, l’infinito, l’ultima Thule... Forse un ordine ed un legame tra le cose lo creiamo solo noi... E poi vista da una sufficiente distanza qualunque spiaggia è una massa unitaria tutt’al più screziata. E sarebbe bello chiedersi, infine, cosa possiamo conoscere, se la nostra comprensione chiede di celare che tutto è soltanto una successione di attimi, o di atomi, o di minimalia ancora più inconsistenti, per noi nulla ed unica vera presenza.

T.T. – S’è questionato abbastanza sulla scienza... e lascerei cadere l’argomento qui.

R.M. – Sì.

Tommaso Trini
2003-2006